sabato 27 agosto 2011

Gender Docufilm Fest seconda serata

Superati alcuni problemi tecnici dovuti alla non richiesta inventiva dei tenici (che hanno cambiato l'ottica del proiettore alle 20 di sera...) che hanno causato un certo ritardo (perdonato dal pubblico, tranne il solito intransigente che ha davvero calcato la mano) la seconda serata del Gender Docufilm Fest ha visto proiettati tre documentari molto diversi tra loro e poco centrati rispetto il tema del festival, l'identità di genere.



Le ciel en battaille (Francia, 2010) di Rachid B. (t.l. Il cielo in battaglia e non Battaglia nel cielo come tradotto nella brochure) è un racconto-confessione che  il protagonista fa idealmente al padre, malato terminale di cancro, partendo dalla sua recente conversione all'Islam, proseguendo col coming out che non ha mai avuto il coraggio di fare (pur essendo uomo e non ragazzo). Il racconto torna quindi alla sua infanzia spesa in Algeria prima del rimpatrio forzoso, vissuto con la classica nostalgia del pied noir, tra catechismo e fede e l'attrazione incontenibile per i ragazzi che il protagonista vive come un peccato.
Il racconto, fatto in prima persona, con la tecnica della voice over, vede l'utilizzo di fotografie e immagini d'epoca, tra quelle personali di Rachid e della sua famiglia e quelle cinetelevisive della sua infanzia, in un uso poetico del rapporto parola/immagine un po' trito a dire il vero e a tratti retorico.
Il testo infatti inanella tutti i topoi del racconto-confessione di un omosessuale d'altri tempi, dal rapporto pedofilo col prete a 12 anni (causa della rottura con la fede cristiana) all'aids che colpisce il suo primo ragazzo nel1'81 (dal quale Rachid si salva miracolosamente) a una promiscuità fatta quasi sempre di sesso rubato (fatto cioè di nascosto e tra le pieghe di una vitta ufficiale altra) con ragazzi etero o presunti tali che non vivono la propria sfera sessual-sentimentale con pienezza e coerenza nè alla luce del sole.
Così mentre il racconto di fiction (che veste i panni del documento solo per il carattere autobiografico del racconto) si avvicina alla recente conversione all'Islam Rachid declina la retorica di un immaginario omoerotico che fa più riferimento a Genet e Pasolini a Gide e Cocteau che alla contemporaneità anche letteraria e dove la promiscuità episodica sembra davvero l'unica cifra dell'affermazione di un orientamento sessuale incontenibile e dirompente fino al raggiungimento dell'odierna felicità, quella dichiarata al padre a inizio documentario, vissuta in un rapporto monogamico e fedele tra le braccia della fede islamica, con un ragazzo algerino, nonostante la religione islamica non sia certo più accogliente di quella cattolica verso le persone omosessuali.
Con tutto il rispetto dovuto a Rachid B. per la storia raccontata nel suo film, che è la sua vera storia e va ascoltata prima ancora che accettata o capita, questo documentario - al quale va riconosciuto il coraggio della propria intima confessione- spiazza per i topoi ormai codificati in un immaginario letterariamente antico che innerva in un discorso filmico altrettanto antico da risultare irritante in un festival di innovazione del concetto di gender (pur in tutte le declinazioni correlate) nella prospettiva del quale risulta conservatore e vetusto. Rachid B. ci propone un documentario che, nel mmento stesso in cui affonda nelle radici della propria storia personale, si dimostra privo di una memoria storica del cinema e, soprattutto, del movimento di liberazione omosessuale che nel documentario sono rimosse come non fossimo nel 2011 ma negli anni 70 (se non prima).
Un po' poco per farne un racconto di 45 minuti (che poteva durare benissimo la metà del tempo ma la concisione non sembra essere il dono dei documentari fin qui visti di questa seconda edizione del Gender DocuFilm Fest) che, alla fine, lascia il tempo che trova senza spiegare nemmeno in profondità le vicissitudini - per quanto intime e personali - che portano un omosessuale ad abbracciare una qualsiasi religione che nega il diritto alla sua esistenza.



Il secondo documentario Romeo & Julius (Danimarca 2010) di Sabine Hviid (un docuemntario non in prima italiana, essendo già stato presentato lo scorso anno al San Giò Verona video Festival, dove ha ricevuto il premio Logan) è un'opera curiosa e irrisolta che vorrebbe imbastire un racconto metateatrale nel quale - partendo da un allestimento di Romeo e Giulietta dove Giulietta è un uomo e si chiama Julius  (senza però spiegare davvero il perchè di questa scelta drammaturgica  se non quella di sfruttare l'orientamento sessuale dei due giovani attori, entrambi gay,  secondo una indigesta versione teatrale della vulgata neorealista che vuole gli attori vicini ai personaggi che devono interpretare...) - si approda alla vita reale dei due attori i cui ruoli dovrebbero mettere in discussione il loro privato.
Sorprendentemente e nonostante la scansione del documentario in atti (tre, contro i cinque dell'opera shakespeariana...) dell'allestimento teatrale ci è dato da vedere poco e niente. Anche delle prove - che dovrebbero costituire il momento centrale del documentario - ci è mostrato molto poco indugiando in alcuni momenti di prove all'aperto o nelle case private della regista e dei due ragazzi, per cui a ben vedere lo spettacolo e le prove sono solo un pretesto per parlare d'altro. Anche l'impatto emotivo che, nelle intenzioni della regista, dovrebbe costituire il cuore del documentario, registrando durante lo svolgimento delle prove come l'amore impossibile della storia raccontata da Shakespeare vada a influenzare direttamente la vita dei due giovani si riduce al classici problemi di accettazione di uno dei due ragazzi che si preoccupa che i genitori vedano il suo bacio omoerotico sulla scena, (lui che non ha mai portato i suoi ragazzi a casa e che, comunque, non si è mai davvero innamorato) mentre l'altro ragazzo, che vive già una storia d'amore dichiarata in casa si commuove fino alle lacrime quando in scena deve baciare un altro che non è il suo fidanzato con poco rispetto per la professionalità dell'attore nella quale il personaggio da interpretare rimane ben distinto dalla sua vita privata e dove un bacio sulla scena tra due attori, nulla rivela del loro vero orientamento sessuale.
Senza nessuna distinzione stilistica tra i (rari) momenti delle prove i (rarissimi) momenti on stage e quelli più personali dei due attori ripresi anche nell'intimità delle relative case, (mentre degli altri attori dello spettacolo non ci è dato sapere nulla) Romeo & Julius  si fa vedere senza lasciare traccia nella memoria dello spettatore che si trova dinanzi a un racconto à la "Piccoli gay crescono", banalizzando in salsa adolescenziale la ricerca di una propria identità gay che spreca un poco l'assunto centrale di un festival di documentari di genere raccontando i soliti problemi di coming out senza nemmeno distinguersi per originalità o brillantezza della regia (cinematografica visto che di quella teatrale nulla ci è fatto vedere...). 



Il terzo documentario Face (Australia 2010) di Adele Wilkes  (t.l.Volto e non Volti come nella brochure) si presenta come un lavoro interessante sui video postati nel sito Beautiful Agony che ritraggono, in primo piano, uomini e donne,di ogni età e orientamento sessuale, mentre raggiungono l'orgasmo, da soli o con amici o partner.
I video sono girati dai singoli soggetti, inviati al sito che, vagliandone l'autenticità, li pubblica online. La regista che firma il documentario ha il compito, per conto del sito, di verificare i video e ha pensato di attingere a quel materiale per indagare sulla piccola morte, sul momento dell'orgasmo, quando le nostre facce sono davvero percorse da una smorfia incontrollabile e vera.
Progetto ambizioso e interessante il film si limita però ad attingere ad alcuni dei video postati sul sito (che hanno superato attualmente le ventimila unità) alternati a qualche intervista ad alcuni collaboratori del sito (compreso un docente universitario) e alle interviste fatte a chi ha postato i video, a chi, cioè, si è autoripreso durante l'orgamso.
Dichiarazioni personalissime che passano per le fantasie erotiche più singolari eppure così comuni come il ragazzo che associa il sesso al proibito e pensa bene di vestirsi con abiti femminili, o la ragazza che incensa la pornografia come unica forma di performance dove non si può fingere. Commenti ingenui (perchè anche il porno simula e ha una sua retrica di verosimiglianza) ma che - almeno - hanno la caratura del documento perché ritraggono davvero quel che pensano (e dicono) i partecipanti al sito anche se è un parlare filtrato attarverso un meccanismo così particolare come quello del sito.
Alla fine della visone si ha un po' l'impressione che il documentario più di essere una ricerca esterna e autonoma agli interessi del sito sia una sorta di enorme spot del sito stesso. Impressione che viene confermata quando - navigando sulla rete - si scopre che per accedere ai video del sito bisogna iscriversi pagando un fee di 14 dollari al mese (automaticamente rinnovabile) mentre se il sito accetta il video che chiunque può proporgli paga all'autore ...dell'orgasmo 200 dollari.
Una piccola impresa commerciale dunque che modifica la percezione e il senso di tutta l'operazione (la motivazione per cui metto il mio orgasmo in rete è guidata anche dall'incentivo economico e rassicurata dal fatto che i video non sono accessibili a tutto l'universo mondo ma solo a chi si abbona) senza che tutto questo venga minimamente menzionato nel documentario.
Un documentario non scende mai davvero in profondità né sull'orgasmo e la sua percezione sociale (visto che è messo in rete a disposizione della comunità, anche se  pagamento) limitandosi a citare la metafora abusata dell'orgasmo come piccola morte né sui nuovi mezzi di aggregazione sociale che la rete ha contribuito a creare. 
Nel suo fare il documentario la regista si è fatta lo scrupolo di coinvolgere se stessa nell'esperimento dei video ...orgasmatici e il documentario si conclude con il suo personale filmato orgasmico l'unico che ci è dato vedere nella sua interezza (almeno dal climax in poi) con tanto di sguardo bilaterale imbarazzato dopo, che rappresentano alcuni secondi di pura totale e incommensurabile verità. Non sappiamo qui dove sia la ricerca sull'identità di genere, certo se la strada indicata è quella ritratta dalle interviste agli autori dei video postati la scia molto a desiderare...

L'impressione generale che si ha di questi documentari è la superficialità con cui oggi ci si approccia al linguaggio audiovisivo (data anche la facilità d'accesso ai mezzi produttivi grazie alla digitalizzazione ) - anche se Romeo e Julius è girato in 35 mm (avendo un contributo statale) - come se l'occasione di parlare non nasca più da un'urgenza di comunicare ma semplicemente dalla fatto che c'è la possibilità tecnico-economica di farlo.
La responsabilità di ciò non sta naturalmente nei festival che, anzi, registra la tendenza, ma nei film stessi e nella generazione di cineasti che ha la cultura superficiale aneddotica e approssimativa - oltre che autoreferenziale - dei navigatori di internet che credono che nella rete si trovi tutto quel che serve mentre la Storia - ogni Storia - la si scopre ancora sul campo oltre che in sala, a teatro e in biblioteca.

Gender Docufilm Fest prima serata


L'impressione è la stessa degli altri anni eppure, non me ne voglia Imma, questa decima edizione del Gay Village mi sembra la più simile al resto delle manifestazioni dell'estate romana: chioschi per bere, per mangiare e per fumare, senza uno specifico gay che non sia quello della musica o dell'alta concentrazione di ragazzini e ragazzine gay e lesbiche che qui possono essere se stess* in maniera più garantita.
Non mi si fraintenda, non ho nulla da criticare al gay village se non constatarne la stessa intima vocazione commerciale di ogni altra manifestazione estiva. E, per certi versi, anche questa omologazione è una conquista nella misura in cui anche le istanze omosessuali entrano nel mercato e diventano impresa.
D'altronde se dieci anni il Gay Village costitutiva un luogo di rottura e non di omologazione, un laboratorio di aggregazione sociale e non di ratificazione di un consumismo standard (neo)conformista la colpa non è del Village né di chi il Village lo fa, ma dei tempi e della società tutta (nella quale, certamente, il Village e chi lo fa vivono ed esistono) una società dallo sfondo della quale il Village si staglia con le peculiarità che sono di quella e non sue.
Il consumismo autocelebrativo, lo stordimento dei sensi - senza mettere in mezzo alcool sigarette o altre droghe - come affermazione di sé, come unica cifra spendibile del proprio essere-nel-mondo-in-mezzo-agli-altri, diversamente sessualmente orientati ma egualmente e mediamente cafoni, coatti, bulli (e, beninteso, coatte e bulle), dove si parla nonostante ci sia la proiezione di un film, dove si risponde al cellulare (poco importa se ci si alza dal posto per parlare), dove si fuma in continuazione senza pensare che imponi il tuo fumo anche agli altri [ma iersera il ragazzo di una mia amica per fumarsi la sigaretta si è alzato dal posto nonostante ci fossero ancora pochi spettatori... come dire che un altro comportamento non solo è possibile ma c'è chi lo fa], dove ti getti sulla pista quando i lavatori del village stanno ancora smantellando le sedie, dove quasi nessun* oltre al sottoscritto e una donna francese approfitta della presenza del regista di uno dei film appena visti per fargli delle domande (foss'anche cosa fai stasera? data la sua avvenenza).
E se in passato ho criticato l'assenza di una vocazione educativa del Village devo ammettere che questa constatazione - per quanto giusta in linea di principio - malceli una certa dose di paternalismo, di chi crede che la gente vada educata sempre e comunque come se la proposta di alcuni documentari nell'ambito di un festival di documentari di genere (ho adorato che Imma abbia usato l'espressione italiana nonostante il nome del festival sia l'inglesissimo Gender DocuFilm fest) in quanto occasione di confronto e stimolo culturale - per giunta senza alcun compromesso con l'aspetto commerciale (fruibilità, vendibilità) dei documentari proposti -, non sia già di per sé una occasione di formazione. Il traino di un luogo frequentato come il Village dà al festival la giusta spinta a essere più di quanto il festival non dia al Village una parvenza di luogo in cui si fa cultura, un festival sostenuto anche coi soldi pubblici della provincia di Roma (che durante le presentazioni non ha ricevuto praticamente applauso alcuno dagli astanti) e che, se pure è una goccia nell'oceano le gocce lasciano un segno.
Nonostante una certa timidezza impedisca a Giona di essere un padrone di casa vero e proprio la sua disinvoltura nelle lingue (Francese e Inglese) gli ha permesso di interagire con gli ospiti della serata senza le lungaggini di un'interprete.
La macchina organizzativa ha tenuto sino alla fine quando un po' di folla rumoreggiava intorno alla platea (allestita sopra la pista da ballo) aspettando più o meno pazientemente che sgombrassimo per iniziare a ballare (visto che, tra il ritardo accumulato e le domande alla fine del secondo documentario avevamo superato la mezzanotte) mentre il piatto forte, naturalmente, sono stati i documentari presentati.


L'apertura di questa seconda edizione del Gender Docufilm Fest è stata affidata a due documentari impegnativi e stimolanti.

PYUUPIRU 2001-2008 (Giappone, 2010) di Daishi Matsunaga

La cosa più sorprendente di Pyuupiru il protagonista dell'omonimo documentario a lui dedicato è il percorso artistico ed umano dell'uomo,  indissolubilmente legati. Non stiamo parlando della vita che influenzale l'arte ma del continuo interscambio tra le due che costituisce la cifra più intima dell'artista. Daishi Matsunaga, amico d'infanzia di Pyuupiru, lo ha seguito da vicino per sette anni ritraendone vicissitudini artistiche  e personali purtroppo in maniera del tutto inadeguata. Incapace di governare la sua materia documentale, cioè la vita e la dimensione artistica di Pyuupiru, Daishi Matsunaga si limita a riprenderne l'esteriorità sia quella fatta di momenti pubblici come quando Pyuupiru, nel 2005, ormai artista emergente, si esibisce presso la triennale di Yokohama, sia di momenti privati, quando Pyuupiru si innamora di un ragazzo etero che chiama Papi (Papa in inglese come nella canzone Papa Don't Preach di Madonna) sia i percorsi dell'artista, l'invenzione dei suoi costumi fatti a maglia, del trucco che adotta per i suoi personaggi (characters) così come si fa fotografare all'inizio della sua carriera quando ancora non era chiara la sua cifra di artista e veniva presentato dalla casa editrice che lo pubblicava come una sorta di freaks o di weirdo.


Matsunaga indugia troppo su alcuni elementi della vita di Pyuupiru (la costruzione dei 50 mila e più origami a forma di gru che gli servono per un elemento della sua istallazione alla triennale di Yokohama per la quale, dopo averne fatti più di 30 mila da solo, chiede aiuto ai suoi fan che, dettaglio che da solo, occupa circa un quarto dell'intero documentario) dimostrandosi del tutto impreparato nell'approfondire le intuizioni che Pyuupiru gli regala di tanto in tanto quando parla con lui guardando direttamente in camera.
Definito dai parenti e dagli amici gay Pyuupiro ammette di non avere mai avuto una storia stabile, confessandosi incapace di gestire una relazione con un ragazzo, anche se la desidererebbe. Incapace (non sappiamo se per ingerenze esterne dato che il documentario nulla ci dice sull'ambiente in cui Pyuupiro vive) di vivere da ragazzo al quale piacciono i ragazzi Pyuupiru si dedica alla sua arte, alla costruzione di personaggi che ne deostruiscano il ruolo di genere non alla ricerca di una terza via o, comunque, di una via alternativa al gender ma, piuttosto, di un modo per dissimulare la sua incapacità a gestire il proprio omoerotismo. Non a caso Pyuupiru si innamora di Papi, un ragazzo etero che non accetta mai nemmeno di baciarlo (e che nel documentario non vediamo mai) e per il quale Pyuupiru fantastica di possedere un corpo femminile, con grosse tette (che scommette piacerebbero tanto a Papi, come gli dice in una telefonata che vediamo filmata) e una vagina al posto del pene secondo il più doppio trito cliché maschilista che vuole 1) che un uomo che è attratto dagli uomini sia un po' femmina e 2) che il corpo femminile sia il viatico principale dell'attrazione sessuale di un maschio.
Prima ancora di essere una persona alla ricerca di una identità sessuale che lo definisca, Pyuupiru vaga negli interstizi dei cliché di genere, arrivando a castrarsi (asportazione chimica dei testicoli ma non del pene) come primo passo di avvicinamento al corpo femminile cui pensa di approdare non per cercare una consona identità di genere ma per avvicinarsi a quel corpo che Pyuupiru creda piaccia a Papi. Ovviamente Papi appena appreso dell'operazione, lo lascia.
selfportrait #15 - 'Castrated male genitals'
E - come all'inizio della sua carriera - Pyuupiru trova nell'arte la sua salvezza e fa del proprio corpo la sua opera d'arte, la creta su cui modellare una trasformazione che si faccia espressione di una trasformazione che vale di per sé e non tanto per la meta di destinazione.
Purtroppo nonostante la sua prolissità e i suoi - a tratti - lunghissimi interminabili 95 minuti il documentario ci abbandona proprio quando l'artista comincia timidamente a fare del suo corpo la sua tela, modificando le palpebre, il mento e le labbra (rendendole carnose come quelle dei neri).
selfportrait #30 - 'Female genitalia that were born'
Più affine alla ricerca di altri body artist che a quella della persona transessuale  (che, lungi dal cercare una alternativa identità di genere si limita a modificare chirurgicamente il sesso biologico rendendolo il più vicino possibile a quello cui si sente, a qualunque titolo, di volere/dovere appartenere) Pyuupiru 2001-2008 è una promessa mancata, un documentario che mostra l'enorme potenzialità del soggetto ritratto, l'artista Pyuppiru, privo però degli strumenti culturali, artistici, politici e di movimento per poter restituire anche l'ombra dello spessore di una persona unica nel suo genere che sembra aver trovato nell'arte quella capacità di essere se stesso come non è riuscito a fare nel mondo che lo circonda, più per soggettivi limiti personali - per quel poco che ci dà da sapere il documentario - che per oggettivi limiti imposti dall'esterno (a cominciare dalla famiglia che lo accetta sin da subito, non battendo ciglio sul fatto che in quanto gay Pyuupiro si vesta da donna... come dire l'omofobia è di casa ovunque).

Completamente insostenibili e provinciali i commenti europei che hanno accolto il documentario (una novità assoluta per l'Italia ma che ha già viaggiato in lungo e largo per l'Europa dal Barcelona Asian Film Festival (BAFF) del 2010 e al Festival Paris Cinéma di quest'anno) facendo di Pyuupiru altro da quello che è, un artista e non un ricercatore di sinergiche e nuove declinazioni dell'identità sessuale.


Come al solito la bellezza è nell'occhio di chi guarda. A volte anche il provincialismo.

Pyuupiru, Selfportrait #02 A 12-year-old Boy Bearing Scars, 2005-07


Un inizio preciso e pertinente per questa seconda edizione di un festival che vuole presentare dei documentari come contributo alla ricerca dello studio sui ruoli di genere, sugli stereotipi dell'identità di genere e zone liminali.

Il secondo (e ultimo) documentario della prima sera è un puro racconto per immagini senza (quasi) dialoghi, più due cartelli a inizio e a fine documentario.

The Table With The Dogs (Kathakali) (India, 2010) di Cédric Martinelli e Julien Touati

Le immagini ci catapultano subito in un ambiente estraneo all'occhio occidentale, in un posto isolato, dove un gruppo di giovani e giovanissimi indiani, tutti molto magri, dal corpo tonico, erotico, desiderabile, sono sottoposti alla una dura disciplina della danza KATHAKALI. 
Il documentario ha più la vocazione del reportage che del documento mentre ci mostra Julien Touati - uno dei due registi - seguire, come unico occidentale, un training coreutico che normalmente richiede 11 anni di dedizione (come ci spiega il cartello durante i titoli di coda, un po' troppo breve per esser letto da chi non è madrelingua...) e che raramente viene aperto agli occidentali.

L'occhio dei due registi non è però un occhio antropologico, nemmeno per quel tanto che gli è dato dallo scarto etnocentrico tra culture. La danza Kathakali è per i due registi francesi occasione di una operazione estetizzante. L'occhio col quale i due documentaristi si avvicinano a questa forma multidisciplinare d'arte (Letteratura,  Musica Pittura Arte drammatica e Danza) infatti indugia sui corpi dei danzatori, indagati, esplorati, ripresi  e mostrati nella loro purezza di corpi in movimento che si sottopongono a uno sforzo atletico-coreutico-performativo non indifferente del quale però non ci viene restituita né l'energia, né la passione, né la forza né la sacralità con cui questi uomini si preparano per uno spettacolo nel quale interpretano delle coloratissime e truccatissime divinità del Mahabharatha e dal Ramayana. Divinità maschili  e femminili che - proprio come nel teatro elisabettiano, sono interpretate elusivamente da uomini e che solo un occhio naïf può leggere in chiave omoerotica o come messa in discussione dell'identità di genere.


















Anzi a uno sguardo anche solo timidamente femminista questi uomini che interpretano anche i personaggi femminili non possono non essere visti come espressione di una cultura maschiocentrica che esclude le donne dalla rappresentanza anche del loro genere o almeno diciamo questo in mancanza di una più precisa conoscenza culturale di un fenomeno come la danza Kathakali che il documentario si guarda bene dal fornire e che, dunque, non reputa necessaria per la sua fruizione, autorizzando così letture etnocentriche occidentali di un fenomeno altro qui presentato nella sua pura datità senza contesto alcuno.
Nulla ci viene detto infatti di questi uomini che non sono persone e nemmeno personaggi ma figure senza una propria storia né personalità ripresi e mostrati secondo gli standard di un puro gusto esotico di ottocentesca fattura che rimane secondo solo all'auto-celebrazione del giovane regista che segue il corso di danza - unico occidentale a poterlo fare - che sembra davvero l'unica cifra vera del documentario che non ha nemmeno la dignità del diario non riportando alcuna sensazione osservazione o commento dello studentre-auotre-coregista.
Insomma un documentario inutile il cui unico valore è quello della ricerca  visiva alla quale si deve riconoscere una certa efficacia e un discreto fascino ma che rappresenta al contempo un'occasione mancata per documentare la cultura e la storia di una antichissima disciplina di teatro-danza in una delle sue rare occasioni in cui si mostra all'occhio occidentale che rimane in superficie senza approfondire mai nulla nemmeno il momento dello spettacolo del quale ci vengono mostrati (forse per accordi con la scuola) solo pochissimi minuti.

Provati e un po' delusi io e Guido ce ne andiamo convinti che domani sera ci rifaremo coi tre documentari in programma sulla carta più interessanti di quelli visti oggi.