Le ciel en battaille (Francia, 2010) di Rachid B. (t.l. Il cielo in battaglia e non Battaglia nel cielo come tradotto nella brochure) è un racconto-confessione che il protagonista fa idealmente al padre, malato terminale di cancro, partendo dalla sua recente conversione all'Islam, proseguendo col coming out che non ha mai avuto il coraggio di fare (pur essendo uomo e non ragazzo). Il racconto torna quindi alla sua infanzia spesa in Algeria prima del rimpatrio forzoso, vissuto con la classica nostalgia del pied noir, tra catechismo e fede e l'attrazione incontenibile per i ragazzi che il protagonista vive come un peccato.
Il racconto, fatto in prima persona, con la tecnica della voice over, vede l'utilizzo di fotografie e immagini d'epoca, tra quelle personali di Rachid e della sua famiglia e quelle cinetelevisive della sua infanzia, in un uso poetico del rapporto parola/immagine un po' trito a dire il vero e a tratti retorico.
Il testo infatti inanella tutti i topoi del racconto-confessione di un omosessuale d'altri tempi, dal rapporto pedofilo col prete a 12 anni (causa della rottura con la fede cristiana) all'aids che colpisce il suo primo ragazzo nel1'81 (dal quale Rachid si salva miracolosamente) a una promiscuità fatta quasi sempre di sesso rubato (fatto cioè di nascosto e tra le pieghe di una vitta ufficiale altra) con ragazzi etero o presunti tali che non vivono la propria sfera sessual-sentimentale con pienezza e coerenza nè alla luce del sole.
Così mentre il racconto di fiction (che veste i panni del documento solo per il carattere autobiografico del racconto) si avvicina alla recente conversione all'Islam Rachid declina la retorica di un immaginario omoerotico che fa più riferimento a Genet e Pasolini a Gide e Cocteau che alla contemporaneità anche letteraria e dove la promiscuità episodica sembra davvero l'unica cifra dell'affermazione di un orientamento sessuale incontenibile e dirompente fino al raggiungimento dell'odierna felicità, quella dichiarata al padre a inizio documentario, vissuta in un rapporto monogamico e fedele tra le braccia della fede islamica, con un ragazzo algerino, nonostante la religione islamica non sia certo più accogliente di quella cattolica verso le persone omosessuali.
Con tutto il rispetto dovuto a Rachid B. per la storia raccontata nel suo film, che è la sua vera storia e va ascoltata prima ancora che accettata o capita, questo documentario - al quale va riconosciuto il coraggio della propria intima confessione- spiazza per i topoi ormai codificati in un immaginario letterariamente antico che innerva in un discorso filmico altrettanto antico da risultare irritante in un festival di innovazione del concetto di gender (pur in tutte le declinazioni correlate) nella prospettiva del quale risulta conservatore e vetusto. Rachid B. ci propone un documentario che, nel mmento stesso in cui affonda nelle radici della propria storia personale, si dimostra privo di una memoria storica del cinema e, soprattutto, del movimento di liberazione omosessuale che nel documentario sono rimosse come non fossimo nel 2011 ma negli anni 70 (se non prima).
Un po' poco per farne un racconto di 45 minuti (che poteva durare benissimo la metà del tempo ma la concisione non sembra essere il dono dei documentari fin qui visti di questa seconda edizione del Gender DocuFilm Fest) che, alla fine, lascia il tempo che trova senza spiegare nemmeno in profondità le vicissitudini - per quanto intime e personali - che portano un omosessuale ad abbracciare una qualsiasi religione che nega il diritto alla sua esistenza.
Il secondo documentario Romeo & Julius (Danimarca 2010) di Sabine Hviid (un docuemntario non in prima italiana, essendo già stato presentato lo scorso anno al San Giò Verona video Festival, dove ha ricevuto il premio Logan) è un'opera curiosa e irrisolta che vorrebbe imbastire un racconto metateatrale nel quale - partendo da un allestimento di Romeo e Giulietta dove Giulietta è un uomo e si chiama Julius (senza però spiegare davvero il perchè di questa scelta drammaturgica se non quella di sfruttare l'orientamento sessuale dei due giovani attori, entrambi gay, secondo una indigesta versione teatrale della vulgata neorealista che vuole gli attori vicini ai personaggi che devono interpretare...) - si approda alla vita reale dei due attori i cui ruoli dovrebbero mettere in discussione il loro privato.
Sorprendentemente e nonostante la scansione del documentario in atti (tre, contro i cinque dell'opera shakespeariana...) dell'allestimento teatrale ci è dato da vedere poco e niente. Anche delle prove - che dovrebbero costituire il momento centrale del documentario - ci è mostrato molto poco indugiando in alcuni momenti di prove all'aperto o nelle case private della regista e dei due ragazzi, per cui a ben vedere lo spettacolo e le prove sono solo un pretesto per parlare d'altro. Anche l'impatto emotivo che, nelle intenzioni della regista, dovrebbe costituire il cuore del documentario, registrando durante lo svolgimento delle prove come l'amore impossibile della storia raccontata da Shakespeare vada a influenzare direttamente la vita dei due giovani si riduce al classici problemi di accettazione di uno dei due ragazzi che si preoccupa che i genitori vedano il suo bacio omoerotico sulla scena, (lui che non ha mai portato i suoi ragazzi a casa e che, comunque, non si è mai davvero innamorato) mentre l'altro ragazzo, che vive già una storia d'amore dichiarata in casa si commuove fino alle lacrime quando in scena deve baciare un altro che non è il suo fidanzato con poco rispetto per la professionalità dell'attore nella quale il personaggio da interpretare rimane ben distinto dalla sua vita privata e dove un bacio sulla scena tra due attori, nulla rivela del loro vero orientamento sessuale.
Senza nessuna distinzione stilistica tra i (rari) momenti delle prove i (rarissimi) momenti on stage e quelli più personali dei due attori ripresi anche nell'intimità delle relative case, (mentre degli altri attori dello spettacolo non ci è dato sapere nulla) Romeo & Julius si fa vedere senza lasciare traccia nella memoria dello spettatore che si trova dinanzi a un racconto à la "Piccoli gay crescono", banalizzando in salsa adolescenziale la ricerca di una propria identità gay che spreca un poco l'assunto centrale di un festival di documentari di genere raccontando i soliti problemi di coming out senza nemmeno distinguersi per originalità o brillantezza della regia (cinematografica visto che di quella teatrale nulla ci è fatto vedere...).
Il terzo documentario Face (Australia 2010) di Adele Wilkes (t.l.Volto e non Volti come nella brochure) si presenta come un lavoro interessante sui video postati nel sito Beautiful Agony che ritraggono, in primo piano, uomini e donne,di ogni età e orientamento sessuale, mentre raggiungono l'orgasmo, da soli o con amici o partner.
I video sono girati dai singoli soggetti, inviati al sito che, vagliandone l'autenticità, li pubblica online. La regista che firma il documentario ha il compito, per conto del sito, di verificare i video e ha pensato di attingere a quel materiale per indagare sulla piccola morte, sul momento dell'orgasmo, quando le nostre facce sono davvero percorse da una smorfia incontrollabile e vera.
Progetto ambizioso e interessante il film si limita però ad attingere ad alcuni dei video postati sul sito (che hanno superato attualmente le ventimila unità) alternati a qualche intervista ad alcuni collaboratori del sito (compreso un docente universitario) e alle interviste fatte a chi ha postato i video, a chi, cioè, si è autoripreso durante l'orgamso.
Dichiarazioni personalissime che passano per le fantasie erotiche più singolari eppure così comuni come il ragazzo che associa il sesso al proibito e pensa bene di vestirsi con abiti femminili, o la ragazza che incensa la pornografia come unica forma di performance dove non si può fingere. Commenti ingenui (perchè anche il porno simula e ha una sua retrica di verosimiglianza) ma che - almeno - hanno la caratura del documento perché ritraggono davvero quel che pensano (e dicono) i partecipanti al sito anche se è un parlare filtrato attarverso un meccanismo così particolare come quello del sito.
I video sono girati dai singoli soggetti, inviati al sito che, vagliandone l'autenticità, li pubblica online. La regista che firma il documentario ha il compito, per conto del sito, di verificare i video e ha pensato di attingere a quel materiale per indagare sulla piccola morte, sul momento dell'orgasmo, quando le nostre facce sono davvero percorse da una smorfia incontrollabile e vera.
Progetto ambizioso e interessante il film si limita però ad attingere ad alcuni dei video postati sul sito (che hanno superato attualmente le ventimila unità) alternati a qualche intervista ad alcuni collaboratori del sito (compreso un docente universitario) e alle interviste fatte a chi ha postato i video, a chi, cioè, si è autoripreso durante l'orgamso.
Dichiarazioni personalissime che passano per le fantasie erotiche più singolari eppure così comuni come il ragazzo che associa il sesso al proibito e pensa bene di vestirsi con abiti femminili, o la ragazza che incensa la pornografia come unica forma di performance dove non si può fingere. Commenti ingenui (perchè anche il porno simula e ha una sua retrica di verosimiglianza) ma che - almeno - hanno la caratura del documento perché ritraggono davvero quel che pensano (e dicono) i partecipanti al sito anche se è un parlare filtrato attarverso un meccanismo così particolare come quello del sito.
Alla fine della visone si ha un po' l'impressione che il documentario più di essere una ricerca esterna e autonoma agli interessi del sito sia una sorta di enorme spot del sito stesso. Impressione che viene confermata quando - navigando sulla rete - si scopre che per accedere ai video del sito bisogna iscriversi pagando un fee di 14 dollari al mese (automaticamente rinnovabile) mentre se il sito accetta il video che chiunque può proporgli paga all'autore ...dell'orgasmo 200 dollari.
Una piccola impresa commerciale dunque che modifica la percezione e il senso di tutta l'operazione (la motivazione per cui metto il mio orgasmo in rete è guidata anche dall'incentivo economico e rassicurata dal fatto che i video non sono accessibili a tutto l'universo mondo ma solo a chi si abbona) senza che tutto questo venga minimamente menzionato nel documentario.
Un documentario non scende mai davvero in profondità né sull'orgasmo e la sua percezione sociale (visto che è messo in rete a disposizione della comunità, anche se pagamento) limitandosi a citare la metafora abusata dell'orgasmo come piccola morte né sui nuovi mezzi di aggregazione sociale che la rete ha contribuito a creare.
Una piccola impresa commerciale dunque che modifica la percezione e il senso di tutta l'operazione (la motivazione per cui metto il mio orgasmo in rete è guidata anche dall'incentivo economico e rassicurata dal fatto che i video non sono accessibili a tutto l'universo mondo ma solo a chi si abbona) senza che tutto questo venga minimamente menzionato nel documentario.
Un documentario non scende mai davvero in profondità né sull'orgasmo e la sua percezione sociale (visto che è messo in rete a disposizione della comunità, anche se pagamento) limitandosi a citare la metafora abusata dell'orgasmo come piccola morte né sui nuovi mezzi di aggregazione sociale che la rete ha contribuito a creare.
Nel suo fare il documentario la regista si è fatta lo scrupolo di coinvolgere se stessa nell'esperimento dei video ...orgasmatici e il documentario si conclude con il suo personale filmato orgasmico l'unico che ci è dato vedere nella sua interezza (almeno dal climax in poi) con tanto di sguardo bilaterale imbarazzato dopo, che rappresentano alcuni secondi di pura totale e incommensurabile verità. Non sappiamo qui dove sia la ricerca sull'identità di genere, certo se la strada indicata è quella ritratta dalle interviste agli autori dei video postati la scia molto a desiderare...
L'impressione generale che si ha di questi documentari è la superficialità con cui oggi ci si approccia al linguaggio audiovisivo (data anche la facilità d'accesso ai mezzi produttivi grazie alla digitalizzazione ) - anche se Romeo e Julius è girato in 35 mm (avendo un contributo statale) - come se l'occasione di parlare non nasca più da un'urgenza di comunicare ma semplicemente dalla fatto che c'è la possibilità tecnico-economica di farlo.
La responsabilità di ciò non sta naturalmente nei festival che, anzi, registra la tendenza, ma nei film stessi e nella generazione di cineasti che ha la cultura superficiale aneddotica e approssimativa - oltre che autoreferenziale - dei navigatori di internet che credono che nella rete si trovi tutto quel che serve mentre la Storia - ogni Storia - la si scopre ancora sul campo oltre che in sala, a teatro e in biblioteca.
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