Inizia anche a capirsi che un festival sui gender studies può anche annoverare i film presentati nelle prime due sere, anche se non sono esattamente pertinenti, quando il festival ha una sua fisionomia concettualmente chiara e stated, cosa che è avvenuta solo nella terza serata, per cui, retrospettivamente, anche i film precedentemente recensiti mantengono un loro perchè, anche se non strettamente pertinenti ai gender studies.
Il primo film della serata è Who’s Afraid of Kathy Acker? di Barbara Caspar (Austria / Germania 2008) 84 minuti, un documentario classico sulla scrittrice post punk Kathy Ackerman. Attraverso interviste a chi l'ha conosciuta o chi l'ha potuta solo leggere (Kathy è morta nel 1997 di un cancro al seno a soli 50 anni) alternate a filmati d'epoca e interviste a lei, il documentario ricostruisce vita fortune e sfortune letterarie e indaga sulla sua poetica centrata sul corpo sessuato come indagine dei rapporti tra uomo e donna. Un documentario mancante dal lato "scientifico" nel quale non vengono individuati bene il contesto politico e storico in cui si inserisce la scrittrice (non c'è istanza narrante che non siano gli intervistati...), sottolineando di più il lato del vissuto personale (un atteggiamento che personalmente disapprovo, non mi interessa la persona ma l'opera) che l'impatto che la sua opera ha avuto nella storia culturale ma che sicuramente inchioda lo spettatore sulla poltrona rendendo il film quasi un'opera di Acker stessa e facendo sicuramente venire voglia di leggere i suoi romanzi soprattutto a chi, come me, non ne conosceva nemmeno il nome. Un bel documentario su un'attivista, scrittrice, intellettuale, che ha fatto del corpo femminile, del suo corpo un campo di esplorazione sui significati sociali del gender così come è connotato nella società. Una scrittrice interessante e particolare che ha riscritto i grandi classici secondo quest'ottica (dal Don Chisciotte al Great Expectation...). Un documentario che non solo si colloca bene in un festival sul gender ma che dà finalmente la giusta fisionomia a un festival i cui film sino ora erano opachi e poco chiari. XCerto sentire Imma battaglia parlare di genderism e commutare l'orientamento sessuale in un più fluido e ondivago transgenderismo dà qualche brivido alla schiena ma i film sono lì a ripristinare la precisione e il significato dei termini...
La vera sorpresa della serata è stato Prodigal Sons di Kimberly Reed, (Stati Uniti, 2008) 86 minuti, che racconta con una saggia e azzeccatissima scansione narrativa del ritorno a casadi Kimberly, ad Helena, Momtana, dopo 10 anni di assenza, per una reunion con i compagni di classe. Kim rivede suo fratello Marc, che in seguito a un grave incidente ha perso una parte di cervello ed è soggetto a furiosi sbalzi d'umore. Kim nei dieci anni di assenza ha percorso un cammino di cambiamento. Kimberly infatti nasce come Paul e il documentario ce ne mostra filmati e foto in cui un maschilissimo e bellissimo ragazzo mieteva cuori di ragazze. A Paul piacciono le ragazze e anche a Kimberly che infatti è venuta con la sua compagna. Il temuto confronto con gli ex compagni di scuola si risolve in un bell'incontro nessuno la rifiuta, tutti la accolgono benissimo (qualcuna chiede a Kim spiegazioni sul suo diventare donna se ti piacevano le donne già prima perchè diventare donna qualcuno celia sulla sua identità di genere avrei dovuto capire già allora che eri donna da come guidavi la macchina...). Poi il film ha un cambio di rotta imprevisto. Marc dà fuori di testa, così legato a un passato ormai svanito (ha problemi con la memoria a breve termine) cui il cambiamento radicale di Paul in Kim e un simbolo vivente, e cerca i suoi veri genitori (Marc è figlio adottivo), scoprendo che la amdre era (perché muore poco dopo averla trovata) Rebecca Welles! La figlia di Orson Welles e Rita Heiwarth.
Così Marc, sovrappeso, semi calvo, cogli sbalzi d'umore va in Croazia a trovare Oja Kodar (l'ultima donna di Orson e sua erede materiale e morale) che, nel vedere MArc, si commuove, dicendo quanto sia ingiusto che Orson non lo abbia conosciuto, lui che avrebbe sempre desiderato avere un figlio maschio... E si mette a piangere!!!.
Pensavo di vedere un film sulle trans (magari quelle di Marrazzo... molto poco femminili) e invece ho visto un film fantastico girato e montato da Kim stessa, una bellissima donna alla quale ho avuto l'onore di poter dire di persona quanto mi sa piaciuto il suo film e quanto mi piaccia lei.
A film finito, dopo una vera e propria standing ovation a Kim e al suo film, mentre i ragazzi delle votazioni NON passano e NON prendono il mio voto, viene annunciato il voto del pubblico, aleatorio e falso, visto che non comprende almeno quest'ultima votazione. Al pubblico in sala che protesta accorre Filippo che prende le faccine ritagliate tenendole in mano e comunque per il conteggio siamo fuori tempo massimo. Tanto il premio è stato già deciso va al film Should I Really Do It consegna il premio Nicoa Zintgarett in persona dopo che Imma Battaglia si augura che il Gay Villag gli faccia da trampolino e lo farà diventare presidente del Consiglio perché è il suo candidato di sinistra preferito (ma Imma non aveva lamentato una connotazione troppo a sinistra del Pride un paio di anni fa?).
Il premio della giuria (composta da Michael Palmieri, regista di videoclip e spot pubblicitari e Donal Mosher, fotografo statunitense) va invece a Prodigal Sons e non potrebbe essere diversamente!
Così mentre il Gender Docu Film Fest acquista finalmente una sua fisionomia e Giona A. Nazzaro si dimostra davvero incapace di relazionarsi col pubblico (quando Imma fa la prima domanda a Kim, in inglese, Giona dà il microfono direttamente alla regista per rispondere, ed è Kim a ricordargli che forse è il caso che traduca la domanda di Imma perché non tutti tra gli astanti magari capiscono l'inglese...) il Gay Village si dimostra uno spazio inadeguato per il Festival, tra i rumori della gente che chiacchiera, le visite e i passaggi di gente che resta 5 minuti e se ne va perchè il film è coi sottotitoli. Basterebbe chiudere l'area e riservarla solamente ai chi vuole vedere i film, senza aprire i due bar che costeggiano l'area, i cui avventori fanno rumore (d'altronde non gli può nemmeno intimare loro il silenzio...), almeno fino alla fine delle proiezioni. Ma, si sa, Imma che è una imprenditrice e non sta lì certo per fare cultura (come dice dinanzi a Nicola Zingaretti) una pessima imprenditrice che non è capace di coniugare le due cose perchè nessuno le rimprovera di fare soldi coi gay ma se poi concepisce il village come una mega discoteca senza un'area per chi voglia sedersi e chiacchierare invece che bere mangiare e ballare, senza uno spazio addetto alla cultura. Oppure è solo è troppo avida per rinunciare agli incassi dei due bar durante le proiezioni che, costando una birra 6 euro, sono davvero incassi cospicui... D'altronde riconosce lei stessa che gli astanti sono un pubblico di nicchia (ce lo dice proprio...!) e questo denuncia l'idea che Imma ha della cultura. Un'idea da centrodestra, una voce di spesa a titolo perso, come la cultura forse qualcosa che solo i palati raffinati possono consumare e non qualcosa di essenziale PER TUTTI proprio come il pane.
Ma è più facile cavar sangue dalla solita rapa che cavar buonsenso imprenditoriale da Imma Battaglia...
Il vero grazie per questo Festival dobbiamo dirlo a Nicola Zingaretti che ci ha messo i soldi. Imma si ammanta di una volontà di cultura che altrimenti non le appartiene...