venerdì 30 agosto 2013

4 edizione del GenderDocu Film Fest (1)



La creatura di Giona A. Nazzaro (ora che  Filippo Ulivieri ha abbandonato), fortemente voluta da Imma Battaglia (che ci ha messo i soldi) è giunta quest'anno alla sua quarta edizione.

Con una mission sfocata sin dalla prima edizione i film presentati ogni anno dal festival si pongono nei confronti della parola gender e del concetto che la parola inglese indica (il genere sessuale come costruzione socio antropologica) in un rapporto molto vario, per alcuni dei film è poco più di un pretesto per altri invece un valido elemento per contribuire all'analisi della costruzione e decostruzione del genere e dei suoi stereotipi.

I film presentati secondo la scelta insindacabile del suo creatore non sono mai banali anche se talmente eterogenei da non declinare il gender come tema ma come punto di vista, nodo gordiano di altre istanze, cinematografiche politiche e di militanza lgbt come specificato nel sito del festival:
Ancora una volta si afferma con forza lo specifico del festival: non una selezione “contenutista” di argomenti da discutere, ma la scelta di uno sguardo, sempre schiettamente cinematografico, diretto sull’insieme delle relazioni che fanno del nostro corpo il fulcro di tutte le nostre interazioni sociali.

Questa quarta edizione inizia un po' in sordina a cominciare da uno schermo che non si può dire davvero tale visto che è composto da pannelli assemblati insieme, che soprattutto nelle scene più luminose lascia vedere fin troppo bene i bordi di giuntura tra un pannello e l'altro.
Schermo che va benissimo per la videoproiezione di immagini per la musica o per la discoteca, ma che poco ha a che fare con la cultura della visione cinematografica.

Lo diciamo senza polemica  sperando che per la quinta edizione si torni a uno schermo davvero cinematografico (un unico telo o altro materiale tutto di un pezzo...).
Anche se quest'anno a differenza degli anni passati lo staff tecnico è più sollecito e presente sia dal versante degli strumenti (i microfoni per il pubblico che arrivano subito) sia da quello della sicurezza (con gli addetti che zittiscono con cortesia ma determinazione quella parte di pubblico sciagurata che non solo durante i film parla ma, addirittura, gioca con lo smartphone senza nemmeno azzerare il volume dei suoni di gioco...).


Purtroppo e la responsabilità non è certo di Nazzaro e della sua creatura, il Gay Village ha più la vocazione dell'intrattenimento sostenuto dalla verve di Vladimir Luxuria (direttore** artistico), intervenuta dopo la proiezione del secondo film,  che sa sempre rubare la scena ma che tramuta tutto in gioco, traendone occasione per battute anche quando si riflette su dei temi difficili già per un pubblico più selezionato figuriamoci per quello discotecaro del Village.

Ma tant'è.
Bisogna dare atto a Imma Battaglia di essere stata l'unica a credere e a sostenere il progetto di Giona Nazzaro e, come si dice, a caval donato non si guarda in bocca.

Certo constatare quale sia la qualità dell'attenzione che gli avventori e le avventrici del village sono capaci  di dare a un prodotto culturale di notevole spessore come quello del GenderDocu  film Fest è anche un modo per tastare la salute culturale del paese che è a dir poco moribonda.


Durante il primo documentario, di cui  parlo poche righe più giù, ci sono state continue defezioni data la natura cinematografica (racconto per suoni e immagini)  e non televisiva (dialoghi esplicativi) del film che sarà stato sicuramente recepito come noioso se non incompressibile. 

D'altronde il Gay Village è una impresa commerciale e non è di competenza delle imprese  educare gli spettatori ma solo coltivare dei clienti e allora cosa chiedere di più all'impresa Gay Village che ci regala il GenderDocu Film Fest?


Altra mancanza, davvero ingiustificata, perchè facilmente rimediabile,  quella delle brochure con le note sui film che (a detta di Imma) sono state perse dal corriere...

Una fotocopia cartacea non poteva venire stampata?
Non c'è una fotocopiatrice in tutto il Village?
Non si possono fare 50-100 copie? Davvero?!

Poco grave per la mancanza di informazioni sui film alla quale sopperisce Nazzaro, vera machine à festival. che introduce e traduce dal francese e dall'inglese (ma parla correntemente anche il tedesco...) ma gravissimo per il voto del pubblico previsto per ogni film con tanto di assegnazione finale di un premio - sempre più aleatorio e casalingo - che ierisera non si è potuto svolgere visto che nessuno aveva la brochure con le classiche faccine da strappare e consegnare e che nessuno è passato per raccogliere in altro modo le preferenze di voto del pubblico.

D'altronde solo alla conclusione della serata Nazzaro ha ricordato di votare (e come?!) senza ricordarlo a inizio serata, magari informando il pubblico di quello che il festival aveva pensato per rimediare all'assenza delle faccine della brochure.

Insomma populismo italiota anche in questo caso anche se nessuno tra il pubblico sembra essersene non dico risentito ma nemmeno accorto.

E spero che Giona, che mia accusa di massacrare il festival ogni anno, perdoni questa mia puntualizzazione che mi sembra d'obbligo non per polemica ma per onestà intellettuale.

E, finalmente, passiamo ai due documentari presentati in serata.

Il primo film è l'interessante La Bagne (Francia, 2012*) di Maud Martinin in Prima internazionale come tutti (o quasi) i film selezionati quest'anno (film cioè che per la prima volta vengono presentati fuori dal paese di origine).

La regista filma le prove di una coreografia di Bernardo Montet ispirata a Il bagno penale di Genet.
Tra improvvisazioni, movimenti di gruppo e a solo il film più che documentare la ricerca coreografica allestisce questo materiale seguendo lo sguardo personale della regista che indaga più che sulla coreografia del corpo che balla, sul rapporto tra corpo e persona o, come dice ha detto la regista presente al festival) il corpo e lo spirito.

Ne deriva un lavoro interessante dal punto di vista visivo per la capacità di Martinin di riprendere i corpi, avellendoli dal contesto coreografico per reinscriverli in uno spazio astratto anche con un certo gusto per la composizione dell'inquadratura, in uno splendido 4\3 che le permette di riprendere il corpo di ballo in figura intera mantenendo una certa vicinanza della mpd alle persone riprese, i cui corpi vengono restituiti nella loro datità fisica piuttosto che in quella di corpo atletico danzante. Riprese alle quali  Martinin contrappone alcune riprese in bianco e nero e in super8 montate a supporto visivo delle interviste ai danzatori a danzatrici che raccontano della loro esperienza con la coreografia e l'argomento trattato (una colonia penale, un gruppo di persone condannate ai lavori forzati).

Criptico e vagamente estetizzante ma mai davvero noioso (nonostante la defezione di parte del pubblico di cui si è già detto) La Bagne non si sottrae ad alcune ambiguità che delle semplici note esplicative poste in esergo al documentario (parola che al film sta stretta trattandosi più di un film non narrativo che di un film di documentazione) e non dette dalla regista in seguito a un paio di domande del sottoscritto e di Nazzaro, avrebbero chiarito tutti e tutte il vero senso dell'operazione. 

Martinin è la documentarista ufficiale di Bernardo Montet che le ha chiesto per questa sua ultima produzione per il Centre chorégraphique national de Tours un film più personale dove lo sguardo della regista potesse permettersi un registro più creativo.

Ne nasce una sorta di testamento morale tra coreografo Centre chorégraphique national de Tours dove il coreografo non lavora più, mentre Martinin sì, e i danzatori e le danzatrici. 

Un bell'inizio per questa quarta edizione. 


Più tradizionale il documentario Statunitense di Beth Nelsen, Ana Grillo Camp Beaverton (2013) presentato anche questo come prima internazionale mentre è in una più  modesta prima Europea visto che è già passato un mese fa al Rio Gay Film Festival dove ha vinto il premio speciale e al festival di Vancouver lo scorso 21 agosto (fonte pressbook del film).

Il film restituisce l'esperienza delle due registe al Camp Beaverton l'unico americano dedicato esclusivamente alle donne, comprese quelle trans, ospitato da Burning Man, un festival di arte sperimentale che dura per 8 giorni nella città di Black Rock costruita apposta per l'evento nel deserto del Nevada. 

 
Il film riprende le dichiarazioni di alcune partecipanti che riflettono molte diverse posizioni, nel mare immenso delle identità di genere e negli orientamenti sessuali. Trattandosi di un Campo per sole donne, lesbiche ma non solo, biologiche e trans, le intervistate parlano di sessualità, del proprio corpo sessuato distinguendo tra vagina e vulva (gli uomini parlano smepre di vagina vagina vagina ma in realtà si riferiscono alla vulva) mai del tutto avulsa dalla vita sentimentale di coppia o meno.

Così accanto alla vita monogamica di coppie e threesome (anche se una delle intervistate ammette che, non sapendo lei cosa è una coppia, non si vede molto bene nel rapporto a tre, soprattutto a fare la terza persona...), ci sono coppie aperte,  e donne multigender come una splendida ragazza che ha due identità di genere declinate in entrambi gli orientamenti sessuali (quelli binari gay e straight del pensiero americano la bisessualità non esiste) a ognuno e ognuna dei\delle quali piace un tipo di persona diversa.  Al ragazzo gay fare rimming ai berar (arrivoooooo) al ragazzo etero bionde dalle grosse tette, alla donna etero dei giovani biondi e imberbi e alla donna lesbica donne mascoline (Dykes).
Tra incontri a base di strap on e lezioni sulla masturbazione, il documentario è una apologia del lesbismo e della donna e costituisce una sorta di  risarcimento che il festival paga alle donne dopo che l'anno scorso non aveva presentato nemmeno un film lesbico.

Un film intelligente e divertito (lo strap on è un in più che hanno solo le donne visto che non esiste uno strap on con la fica per gli uomini) dove le donne si dimostrano molto più schiette e prive di barriere degli uomini e dove una ricchezza lessicale prolifica quanto fantasiosa diverte (i clit-tail invece dei cock-tail clit=clitoride) e fa pensare, come la differenza tra donne boi, che pur avendo l'aspetto di ragazzi si considerano ancora donne, e le donne boy che invece si considerano ragazzi trans; oppure le persone cis-sexual o cis-gender (abbreviato in cis) che identifica le persone il cui sesso percepito, quello che le identifica, coincide con quello assegnato alla nascita.


Un documentario da vedere per capire che il sesso visto dalle donne è davvero privo di compartimenti stagni e sempre fortemente responsabile (al Beaver Camp si diffonde e sostiene in ogni momento il safe sex. Una delle intervistate spiega come in base alle risposte che riceve dalla donne che incontra decide che tipo di sesso può fare con loro.

Un documentario da studiare e col quale rinnovare il proprio amore per le donne, sempre e ancora.

 
Stasera la seconda serata.


* sul sito del festival è datato 2013 così come riporta l'articolo maschile le invece che quello femminile.




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