sabato 1 dicembre 2018
L'hiv, la carica virale zero, e la possibilità di fare sesso non protetto con le persone sieropositive.
Nella giornata mondiale della lotta contro l'Aids parliamo del video della campagna nazionale di Arcigay contro l'aids e lo stigma delle persone sieropositive.
Vediamolo.
La prima considerazione, in ordine di evidenza, è la ridicolaggine di quell'asterisco per evitare il maschile inclusivo di tutti quando si poteva dire benissimo tutti e tutte.
Son 5 lettere sempre meglio di una soluzione grafica impronunciabile (come leggi o dici tutt*?).
L'asterisco comunque non evita il participio di sierocoinvolti che rimane al maschile per cui il problema non viene risolto...
Ma al di là dell'antisessismo, visto che nel video ci sono solo maschi che fanno sesso con maschi che si rivolgono ad altri maschi che fanno sesso con maschi (come se di uomini sieropositivi che fanno sesso con donne non ce ne fossero e sì che sono il 25% dei nuovi casi di diagnosi di Hiv in italia...) perché diavolo quel tutt*???
Sembra un vezzo, o un tic linguistico, appreso ma non capito, e che si riproduce senza sapere davvero il perché.
Insomma non un buon segno per la validità comunicativa dello spot e della campagna.
Che dice lo spot?
Che le persone sieropositive in terapia antiretrovirale con Hiv non rilevabile non possono trasmettere il virus. Con tanto di dottore che conferma questa affermazione.
Adesso, nessuna persona sieropositiva può trasmettere il virus se ci si fa sesso protetto.
Quindi quello che lo spot dice è che se si fa sesso non protetto con persone sieropositive a viremia
(carica virale) zero (dove zero vuol dire non rilevabile non che il virus non c'è) non si trasmette il virus.
Il fatto di fare sesso non protetto lo spot non lo dice.
Dice semplicemente fare sesso con...
Ambiguo.
Disinformante.
Proditorio.
Pericoloso
Un implicito che mi risulta indigesto.
L'ISS ha appena rilasciato i dati sui nuovi contagi del 2017 e il numero di maschi cui è diagnosticata la sieropositività è costante rispetto gli scorsi anni e non in diminuzione come nel resto d'Europa...
Eppure anche nel resto di Europa si parla dei rischi relativamente bassi in caso di sesso non protetto con persone a viremia zero.
Però in quei siti si spiega sempre bene che
come ricorda, per esempio, il sito ufficiale svizzero di informazione sull'aids aids.ch.
Per sapere che i farmaci vengono assunti regolarmente, che i valori vengono controllati regolarmente e che la viremia è zero, devo come minimo conoscere la persona al punto tale o da sapere che queste cose avvengono davvero perché magari la accompagno ai controlli oppure anche se non la accompagno se la persona me lo dice mi posso fidare.
Insomma se faccio sesso con una persona sieropositiva e le condizioni di cui sopra ci sono e, aggiungo io, quando questa persona fa sesso con estranei (cioè persone di cui ignora la presenza delle tre condizioni) lo fa protetto, posso decidere di fare sesso non protetto.
Il rischio è minimo.
Minimo e non zero perché nessun medico può dire che la possibilità biologica di trasmissione non esista.
Stiamo parlando di una percentuale bassissima, prossima allo zero ma non nulla.
E' una decisione personale e insindacabile, quando però è basata su una infromazione vera e concreta.
Una decisione che posso prendere solamente quando conosco la persona abbastanza bene.
Una situazione di fiducia che ho quando con una persona non dico di starci in coppia ma che almeno conosco bene.
Non il caso di una persona appena incontrata o che conosco poco e con la quale mi incontro per un sano divertente e godibile sesso. Sesso per il quale non posso permettermi il lusso di non usare il profilattico perché il profilattico è la mia unica vera protezione.
E non dimentichiamo che il profilattico non protegge solamente dall'hiv...
Altrimenti succede che io sieronegativo che faccio sesso non protetto col mio partner sieropositivo non mi prendo l'hiv ma la sifilide sì perché lui, il mio compagno a carica virale zero, si è fatto fare un pompino da un ragazzo che aveva la sifilide, se l'è presa, e manco lo sapeva...
E questo vale anche al contrario.
Magari io sieronegativo mi prendo la sifilide senza saperlo e senza saperlo la passo al mio compagno sieropositivo per il quale una seconda infezione sessualmente trasmessa, è sempre più pericolosa che se a prenderla è una persona sieronegativa...
Insomma per fidarmi delle persone sieropositive non è importante sapere che lui l'hiv non può passarmelo ma che se uso il profilattico non può passarmi proprio niente!
Capisco il diritto sacrosanto di essere protetti dallo stigma, ma a me questo spot più che un inno a fare sesso con persone sieropositive sia un inno a fare sesso non protetto.
E non dico che questo non vada fatto ma che quando lo facciamo è sempre a nostro rischio e pericolo.
Perché non tutti hanno la fortuna di un partner a viremia zero.
E poi non c'è solo l'hiv...
Uno spot fatto solamente per le coppie sierodiscordanti che non ne hanno bisogno visto che sono state già sufficientemente informate nei centri hiv.
Non è ancora il caso di far passare il sesso non protetto come una possibilità legittima anche in quei rari casi in cui è così.
Perché se ci prendiamo l'hiv ancora così in tanti è perché facciamo sesso non protetto magari con gente che nemmeno sa di avercelo l'hiv figuriamoci se a viremia zero.
Allora di che stiamo parlando?
lunedì 28 maggio 2018
Plaire, aimer et courir vite appunti per una recensione
Chissà se uscirà mai in Italia Plaire, courir et aimer vite (t.l Piacere, amare e correre veloce) (Francia, 2017) di Christophe Honoré uno dei più bei film sull'omoerotismo e i rapporti sessuali tra uomini del nuovo millennio ci sia capitato di vedere, dopo Le chanson d’amour (Francia, 2004) sempre suo...
Ambientato nell’estate del 1993 Plaire, courir et aimer vite racconta della fine della vita di Jacques (Pierre Deladochamps), uno scrittore di successo la cui sieropositività si sta conclamando in sida, e dell’inizio della vita omoamorosa di Arthur (Vincent Lacoste) che alterna la frequentazione di Nadine (Adéle Wismes) con i rimorchi sessuali nei luoghi di battuage della città di Rennes.
Anche Jacques ha avuto frequentazioni etero tanto da scappargli un giovane figlio che abita con lui e assiste senza trauma ferire alle frequentazioni paterne, non più di rimorchio, ma relazionali.
I protagonisti del film, nonostante le relazioni interpersonali fuori da ogni schema e scevri da qualunque contrapposizione etero-omo, sono personaggi solitari (single) per vocazione intellettuale, a cominciare dal migliore amico di Jacque, Mathieu (Denis Podalidés) troppo preso dal suo lavoro per coltivare relazioni amorose.
Honoré coglie nel segno quando descrive questi omosessuali del secolo scorso come persone incapaci di coniugare sesso amore e amicizia nello stesso rapporto.
Lo dice un ex di Jacques a Lolo, il figlio di Jacques, quando gli spiega di amare suo padre ma di essere un amico (e non certo per pudore nei confronti del dodicenne) e non un innamorato.
In una scena esemplare e indimenticabile Jacques, al telefono, ruba del tempo ad Arthur in un momento di pausa di un rimorchio sessuale con un ragazzo molto bello (che lascia ad attendere nel suo letto, languido) mentre ascolta al telefono i riferimenti letterari che l'amico gli propone a proposito del rimorchio biondo.
Quel che lega Jacques e Arthur non è il sesso ma un'amicizia che va al di là del sesso, esattamente come succede ai maschi etero capaci di rinunciare momentaneamente alla figa per interesse amicale.
Certo l’interesse di Jacques e Arthur l’un per l’altro è basato su una attrazione anche erotica che normalmente tra amici etero non c’è (e a leggercela per forza si compie atto di omonegatività) ma il film ci mostra bene come, nell’alveo del rimorchio omoerotico di fine 900, il sesso rimane performance e non trova mai il modo per tradursi in ginnastica amorosa.
Manca a questi personaggi quell’immaginario collettivo che fa credere loro possibile che le persone con cui scopi tu le possa amare mentre ci scopi e non tramite i sentimenti dell’amicizia in una contrapposizione tra identità di genere che ricalca quelle etero tra maschi e femmine.
E tanto ci basta per queste note scritte di fretta la mattina al risveglio nel balcone della splendida casa parigina che ho affittato stavolta.
Unico rammarico per questo bel film e triste (Jacques rinuncerà ad Arthur, senza spiegarglielo, perché non vuole affrontare l’aids con lui ma da solo) è la totale mancanza di un côté politico.
Come se i froci malati di aids non abbiano fatto comunella e non si siano sostenuti a vicenda come invece bene ci ha mostrato 120 battement par minute di Campillo al quale però preferiamo comunque il film di Honoré.
Meraviglioso il côté letterario del film che spazia tra Rimbaud e Koltes mentre vedere Arthur che si lascia distrarre dalla letteratura trascurando un giovane in carne ed ossa che lo attende a letto è credibile solo in Francia.
Ed è anche per questo che ci vengo sempre, ogni volta che posso, per coltivare aspirazioni tradite dalla mia estrazione nazionale.
(ultima modica 17-3-2019)
Ambientato nell’estate del 1993 Plaire, courir et aimer vite racconta della fine della vita di Jacques (Pierre Deladochamps), uno scrittore di successo la cui sieropositività si sta conclamando in sida, e dell’inizio della vita omoamorosa di Arthur (Vincent Lacoste) che alterna la frequentazione di Nadine (Adéle Wismes) con i rimorchi sessuali nei luoghi di battuage della città di Rennes.
Anche Jacques ha avuto frequentazioni etero tanto da scappargli un giovane figlio che abita con lui e assiste senza trauma ferire alle frequentazioni paterne, non più di rimorchio, ma relazionali.
I protagonisti del film, nonostante le relazioni interpersonali fuori da ogni schema e scevri da qualunque contrapposizione etero-omo, sono personaggi solitari (single) per vocazione intellettuale, a cominciare dal migliore amico di Jacque, Mathieu (Denis Podalidés) troppo preso dal suo lavoro per coltivare relazioni amorose.
Honoré coglie nel segno quando descrive questi omosessuali del secolo scorso come persone incapaci di coniugare sesso amore e amicizia nello stesso rapporto.
Lo dice un ex di Jacques a Lolo, il figlio di Jacques, quando gli spiega di amare suo padre ma di essere un amico (e non certo per pudore nei confronti del dodicenne) e non un innamorato.
In una scena esemplare e indimenticabile Jacques, al telefono, ruba del tempo ad Arthur in un momento di pausa di un rimorchio sessuale con un ragazzo molto bello (che lascia ad attendere nel suo letto, languido) mentre ascolta al telefono i riferimenti letterari che l'amico gli propone a proposito del rimorchio biondo.
Quel che lega Jacques e Arthur non è il sesso ma un'amicizia che va al di là del sesso, esattamente come succede ai maschi etero capaci di rinunciare momentaneamente alla figa per interesse amicale.
Certo l’interesse di Jacques e Arthur l’un per l’altro è basato su una attrazione anche erotica che normalmente tra amici etero non c’è (e a leggercela per forza si compie atto di omonegatività) ma il film ci mostra bene come, nell’alveo del rimorchio omoerotico di fine 900, il sesso rimane performance e non trova mai il modo per tradursi in ginnastica amorosa.
Manca a questi personaggi quell’immaginario collettivo che fa credere loro possibile che le persone con cui scopi tu le possa amare mentre ci scopi e non tramite i sentimenti dell’amicizia in una contrapposizione tra identità di genere che ricalca quelle etero tra maschi e femmine.
E tanto ci basta per queste note scritte di fretta la mattina al risveglio nel balcone della splendida casa parigina che ho affittato stavolta.
Unico rammarico per questo bel film e triste (Jacques rinuncerà ad Arthur, senza spiegarglielo, perché non vuole affrontare l’aids con lui ma da solo) è la totale mancanza di un côté politico.
Come se i froci malati di aids non abbiano fatto comunella e non si siano sostenuti a vicenda come invece bene ci ha mostrato 120 battement par minute di Campillo al quale però preferiamo comunque il film di Honoré.
Meraviglioso il côté letterario del film che spazia tra Rimbaud e Koltes mentre vedere Arthur che si lascia distrarre dalla letteratura trascurando un giovane in carne ed ossa che lo attende a letto è credibile solo in Francia.
Ed è anche per questo che ci vengo sempre, ogni volta che posso, per coltivare aspirazioni tradite dalla mia estrazione nazionale.
(ultima modica 17-3-2019)
sabato 24 marzo 2018
Mina, l'icona.
Ricorrono i 40 anni dall'addio alle scene di Mina, siglato dai concerti dell'estate 1978 registrati album usciti quello stesso autunno.
Un addio mai davvero definitivo (Mina continua a "comparire" in radio, sui quotidiani e i settimanali, per tacere di Mina in studio del 2001) ma comunque fondamentale per una cantante: niente più concerti, niente più partecipazioni televisive o cinematografiche, niente.
Nell'iconosfera a cavallo tra due millenni Mina riesce però a mantenere viva una riconoscibilità visiva normalmente consegnata alle icone immortali perché decedute e dunque immutabili.
I tratti fisionomici della signora Mazzini (il naso aquilino, i nei sulla guancia destra, gli occhi privi di sopracciglia, le mani che volano sul viso e intorno) sono immediatamente riconoscibili come il basco del Che e la capigliatura bionda di Marilyn.
L'iconizzazione del volto di Mina non è costruita sulla cancellazione del suo volto di dopo come nel caso di Garbo (Greta, non il cantante) che si è sottratta a qualunque foto da una certa età in poi, di fatto scomparendo.
Dopo l'addio alle scene di Mina abbiamo continuato a vedere foto ufficiose e rubate, foto nelle quali era grassa, dimagrita, sorridente, infuriata, col doppiomento, senza, complice certa stampa scandalistica che ha continuato a massacrarla (un aborto spontaneo e un tentativo di suicidio tra le invenzioni, disgustose, di Stop negli anni 80).
Ci sono poi le copertine dei suoi album nelle quali, accanto a immagini bizzarre (alle quali ci ha abituate da sempre, dalla scimmia del 1971 ai cerchi concentrici di Cinquemilaquarantatré) Mina ha declinato il suo volto nelle forme d'arte più varie, dalla barba di Salomè alla cinepresa di Sorelle Lumière passando per una delle migliori copertine, non solo sue, ma in generale, che è la testa calva di Attila cui l'aliena di Moeba è in qualche modo discendente.
L'assenza di Mina dalle scene non è mai stata silenziosa, e non solo per i dischi che ha continuato a sfornare a cadenza annuale finché la distribuzione non ci ha messo lo zampino mettendo fine fine uno dei Guinness mai eguagliati né mai riconosciuti: dal 1964 anno del primo lp sino al 2003 Mina ha pubblicato almeno un lp all'anno, con punte di tre, dischi di brani di nuova incisione, tra cover e inediti, una prolificità che non ci risulta sia stata nemmeno lontanamente sfiorata da chicchessia(1).
Nonostante la sua assenza fisica Mina ha continuato ad abitare il mondo dell'immagine diventando l'icona di se stessa, o, meglio, scomparendo come personaggio fisico e rimanendo ufficialmente riconoscibile solo in icona.
Ogni foto rubata (anche le immagini video di Canale Cinque che la riprendono mentre chiama sguaiata suo nipote Axel - Aaaaaaaaaaaaaxxxeeeeeeellllllllllll - sicuramente da lei autorizzate) conferma e rimanda all'immaginario ufficiale, quello del suo volto sempre uguale a sue stesso non perché immutabile, imperituro ma perché trasfigurato da un'aura di minosa iconicità che lo rende sempre omologo. Mina capovolge i rapporto tra immagine concreta e icona.
Non è l'icona a conformarsi all'immagine reale è quella reale a essere riconosciuta come Mina perchè conforme all'icona.
Ogni immagine di Mina è una declinazione diversa di certi tratti inconfondibili tramite i quali la riconosciamo sempre, per il resto c'è il nome.
La Mina iconica esiste e resiste perché è il minimo comune denominatore di una Mina altrimenti camaleontica, mora poi bionda, magra, magrissima poi muliebre (parlo della mina prima del ritiro dalle scene).
Nel presentarsi icona identica a se stessa Mina riafferma la sua continua e continuata presenza nell'immaginario collettivo italiano (2).
Dalla pasta Barilla degli anni 60 alla cedrata Tassoni dei 70 mentre si fa testimonial di prodotti commerciali Mina colonizza le pubblicità con la sua presenza fisica e musicale, di cantante e di canzoni, complice un format pubblicitario che distingueva l'intrattenimento dal messaggio meramente pubblicitario.
E' in questi anni che Mina affina e definisce quei tratti distintivi dell'icona, una icona così potente da potersi permettere una copertina con la foto di una scimmia e il suo nome.
Mina con la sua presenza iconica "vende" (conferma) l'icona non qualche suo disco.
Le pubblicità fatte anche dopo l'addio alle scene non sono mai state per i suoi dischi ma per qualche prodotto.
Anche negli anni della tv commerciale (non di Stato) Mina ha usato i format pubblicitari lunghi, quelli dello sponsor, dove non si fa direttamente pubblicità del prodotto ma è quel marchio che si lega a lei creando l'evento.
Fu così per Wind nei primissimi anni 2000 (con tanto di due Ep prodotti ad hoc, uno solo dei quali, chissà perché, entrato nella sua discografia ufficiale), è stato così più di recente per Fiat (anche lì con uscita di un singolo con la canzone usata come "brano" più che come Jingle) e poi di nuovo per Barilla.
E così che Mina, nel 2018, si traghetta verso l'ottuagenario (il prossimo 25 Marzo compie 78 anni, auguri!) con quella che, in superficie, è solamente una operazione promozionale ma che, a ben vedere, è qualcosa di più e, soprattutto, di completamente diverso.
Durante le 5 serate di Sanremo 2018 Mina inanella altrettanti spot per la Tim nei quali non appare solamente in voce e in canzone, come per l'anno precedente, ma anche visivamente, prima timidamente, ritratta da dietro, e poi, per la serata finale del festival, in una apoteosi digitale che la vede piombare sul palco dell'Ariston.
Il meccanismo narrativo è semplice e furbo allo stesso tempo. Mina è un'aliena che giunge da un'altra galassia e, per arrivare in tempo all'Ariston si scarica come avatar all'Ariston cantando la cover di Another Day of Sun.
Un essere alto tre metri dalle testa conica (già vista nelle serate precedenti) con il volto e le mani e le braccia inconfondibilmente di Mina.
Il riferimento iconografico è alla copertina di Piccolino del 2011 ma l'interessante è il rapporto tra aliena e la sua immagine scaricata, che istaura un elegante e riuscitissimo parallelo; Mina in carne ed ossa sta alla sua icona proprio come l'Aliena sta alla sua proiezione olografica.
L'aliena non è scesa sul palco dell'Ariston in carne ed ossa (o di quel che è fatta in quanto aliena) ma come immagine.
Proprio come Mina che continua a calcare le scene da icona.
Un aliena\Mina in immagine tramite la quale la donna e la cantante Mina riesce a proporsi in maniera credibile col sembiante di sempre
iconizzato negli anni 70) anche 50 anni dopo.
L'aliena Mina è altamente riconoscibile e la sua somiglianza non confonde ma conferma.
A Mina non interessa rimanere giovane, Mina riesce credibile nella versione aliena perchè la sua forza e la sua icastica autorevolezza le permettono di approntare un dispositivo iconico che è riconoscibile e riconosciuto dal pubblico, ancora.
A differenza di tutte le donne dello spettacolo che sono ricorse alla chirurgia plastica per apparire giovani, risultando deturpate da mascheroni costruiti dal bisturi di chirurgi misogini e criminali, Mina è riuscita a bypassare l'invecchiamento perché la riconoscibilità è nei tratti iconici noti e, bien sur, nella sua voce.
Stavolta però Mina chiude il cerchio.
La sua presenza autoiconizzante a Sanremo diventa l'involontaria anticipazione del nuovo disco Moeba annunciato i primi di Marzo nel quale l'aliena iconica di Tim campeggia in copertina.
Così non solo Mina più che testimonial di Tim è l'evento di cui Tim è occasione, ma l'intera operazione diventa a sua volta prodromo pubblicitario di un suo disco.
E anche in questo Mina detiene un primato da Guinness, credo sia infatti l'unica artista che venga pagata per fare pubblicità a un suo disco...
Certo chapeau agli e alle esecutive dei progetti pubblicitari ma l'amor che move il sole e l'altre stelle è lei, una urlatrice che sovvertì il panorama ingessato della musica italiana e che, 60 anni dopo, sta ancora lì, avendo musicalmente ancora molto da dire Moeba lo dimostra in maniera sorprendentemente efficace.
E pensare che c'è ancora chi le chiama solo canzonette...
1) I frocetti misogini e saputelli che pretendono che Mina abbia fatto un disco nuovo ogni tanto riempiendo il mercato di compilation di suoi brani anni 60 si informino meglio: Mina non ha il controllo dei brani anni '60 e non è responsabile di quelle compilation che costituiscono una discografia parallela e ufficiosa.
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