domenica 25 novembre 2012

Queering Roma terza edizione: secondo giorno di programmazione


Sale gremite e un'attenzione entusiasmante per le mostre ospitate dalla Casa del Cinema. La terza edizione di Queering Roma, festa del cinema lgbt della capitale, oltre a una nutrita serie di proiezioni vede anche la presenza di due mostre.

C’era una volta L’Occhio, L’Orecchio e La Bocca è una mostra documentaria, a cura di Francesco Pettarin, a partire da materiali gentilmente forniti da Gianni Romoli e Silvia Viglia sul cineclub trasteverino “L’Occhio, L’Orecchio e La Bocca” che si impose per l’inventiva della programmazione, come le famose maratone nelle quali si poteva tirare mattino tra film, documentari, spezzoni e sfizi alimentari.
Un luogo di ritrovo delle varie comunità culturali romane, pre- estate romana nicoliniana, fra le quali anche, ma non solo, quella gay.
Il percorso espositivo presenta locandine, programmi, bozzetti, che tesimoniano l'impegno cultuale di un'epoca che non c'è più...
La mostra è dedicata a Roberto Farina e Flavio Merkel.


Foto di Roberto Foddai
La seconda mostra è Gender Utopia  una collettiva fotografica a cura di Francesco Paolo Del Re che presenta fotografie di Alessandra Baldoni, Jacopo Benassi, Eleonora Calvelli, Fanny Coletta, Roberto Foddai, Aloha Oe, Claudia Pajewski, Angela Potenza, Mustafa Sabbagh e Paola Serino.

Foto caratterizzate da una spiccata preferenza per la ritrattistica, attraverso la quali testimoniare le diverse declinazioni del maschile e femminile decostruendo la regimentazione in cui la cultura ufficiale li vuole separati e idealmente oppositori.
La de-costruzione assume una valenza politica come percorso non solo possibile ma necessario per la riscrittura del sé desiderante rendendola una utopia possibile
foto di Claudia Pajewski
Un territorio – ha scritto Francesco Paolo Del re – per definizione franoso e mutevole, in cui è forse impossibile radicare ma in cui ha senso fiorire a piacimento. In cui la dimensione processuale del genere può illuminare stupori di sguardi senza foglie di fico, che si incrociano lungo le traiettorie della scoperta di un’alterità inebriante”.









Dei film e dei documentari proposti  in questa seconda giornata di festa abbiamo scelto quelli dell'omaggio a Ottavio Mai.

Regista e poeta, omosessuale militante, Ottavio Mai ha notevolmente contribuito a rendere visibile il mondo gay-lesbico in anni molto omofobi. Classe 1946, romano di nascita ma vissuto in Piemonte, orfano di madre a soli due anni e praticamente poco dopo, anche se non di fatto, orfano di padre, Mai incontra Giovanni Minerba nel 1977 con il quale milita nel F.U.O.R.I. e nel Partito Radicale. Nel 1981 costituisce l’Associazione Culturale “L’Altra Comunicazione”, sempre con Minerba, realizzando sino al 1992 22 lavori in video e pellicola che si impongono alla critica e ricevono molti premi ottenendo vari riconoscimenti e ricevendo ottime critiche. 
Decide di lasciarci l’8 novembre 1992.
Di Mai Queering presenta tre film: due documentari da lui firmati insieme a Giovanni Minerba,  e un terzo film a lui dedicato.
I due documentari firmati a quattro mani con Minerba sono un documento prezioso e testimoniano di un impegno civile e politico in tempi ancora più difficili di quelli nostri.

Il primo lavoro è Il fico del regime (Italia, 1991) di O. Mai/G. Minerba, un documentario 
dedicato a Giò Stajano, il primo uomo a essere diventato una vera donna, venuta a mancare lo scorso anno.   
Il documentario dopo aver introdotto le origini storiche di Gioacchino Stajano Starace, nipote di Achille Starace, figura chiave del regime fascista italiano, lascia spazio a Giò stessa che racconta in prima persona vicissitudini personali e carriera artistica, come attore, romanziere, giornalista, rpima e dopo il camabio di sesso.
Dal romanzo autobiografico del 1959 Roma Capovolta, sequestrato per oltraggio al pudore, che attirò l’interesse di Fellini che lo volle per interpretare il ruolo di un omosessuale ne La Dolce Vita personaggio ripreso in film di Risi, Sordi, Freda e Steno alla sua collaborazione con Men, rivista per soli uomini, dove tenne la rubrica Il salotto di Oscar W. dove risponde con arguzia alle lettere aggressive e piene di sfottò dei lettori, il film è un documento importantissimo che mostra come l'omosessualità era vissuta e agita dalle generazioni precedenti di omosessuali, senza che i due autori si facciano sentire in maniera chiara ed evidente, lasciando le glosse ad alcuni interventi in video di Angelo Pezzana. 
Nell'imbarazzo che Giò  lamenta averlo colpito nell'interpretare un ruolo per lui troppo maschile e nella decisione di interpretare in seguito solamente ruoli a lui più consoni,  cioè ruoli di checca (come si rivolgono al personaggio da lui interpretato Gassman e Tognazzi nel film di Risi In nome del popolo sovrano) secondo il più trito e vieto cliché dell'epoca, nonostante Giò millantasse una militanza che pretende gli abbia fatto interpretare quei ruoli con spontaneità e senza indulgere in macchiette o cliché, sta tutto il limite di un personaggio discutibile e di un documentario che oggi mostra i segni discutibili di una ambiguità di fondo: quella di non aver saputo cogliere e distinguere la più omofobica delle confusioni epistemologiche tra identità di genere (sentirsi uomo o donna, come Giò che nel 1981 farà il cambio di sesso) e orientamento sessuale, sentirsi attratti sessualmente e sentimentalmente da persone dello stesso o dell'altro sesso o di entrambi che con l'identitò di genere nulla a a che fare. Io sono e mi sento uomo (donna) anche se vado a letto e/o amo altri uomini (donne).
Una confusione forse comprensibile in un omosessuale nato nel 1931, molto meno in un film datato 1991.
Segno evidente che nonostante un movimento omosessuale vituperato la comunità lgbt di strada ne ha fatta davvero tanta nei 21 che ci separano dal documentario.
Questa omertà nel non criticare l'equiparazione tra effeminatezza e omosessualità, tra essere o sentirsi uomo o donna e omosessualità, rende questo documentario inviso agli occhi di una militanza moderna, contemporanea, più radicata in un quotidiano di militanza e davvero meno borghese di quanto non sia la vita eccentrica e sopra le righe di un omosessuale diventato donna per conformismo e non certo per provocazione

Più interessante Partners (Italia, 1990) O. Mai/G. Minerba, un film di fiction nel quale seguiamo 5 anni di vita di Piero, un giovane omosessuale (un convincente e avvenente Giacomo Ravicchio) che impara a convivere con la propria sieropositività. Tra cure alternative a quelle ufcciali, all'epoca scarne e inesistenti, seguite con meticolosa cura, al patto implicito fatto col virus, io ospito e accolgo te se tu non mi uccidi, dice una sera al virus Piero, alla ricerca di partner occasionali per fare sesso ai quale Piero non si sottrarre dall'informarli sulla propria sieropositività uno dei quali diventa un partner fisso, all'inizio senza sesso per i timori del contagio, riuscendo poi a vincere la paura, il film è un onesto, efficace e sentito spaccato di una generazione e di un periodo storico ben preciso anche se, confrontandolo con film del calibro di Philadelphia del 1993, l'entroterra italiano è anni luce indietro ripeto quello americano, ma certo non per volontà dei due autori che riescono anzi a comporre un film scevro da retorica e pietismi.

Peccato solo per un difetto tecnico che accomuna i due lavori. Un problema cronico sul versante audio che spesso non fa intender bene i dialoghi, tanto del primo quanto del secondo film.


Deludente l'inconcludente, confuso e pessimista El niño Pez (t.l. Il bimbo pesce) (Argentina/Francia/Spagna, 2009) di Lucía Puenzo tratto dal romanzo omonimo della stessa regista (pubblicato in Italia per i tipi di La Nuova Frontiera – Liberamente) che racconta l'amore irresistibile tra due ragazze in un contesto di disparità sociali (una delle due ragazze lavora a servizio presso i genitori dell'altra) culturali, etniche e politiche, distraendo l'attenzione dall'amore delle due giovani con sottotrame pseudo thriller dove un giudice che vuole denunciare la corruzione di un Paese viene ucciso proprio dalla serva (e la figlia amante della serva non batte ciglio) con un gusto per il macabro, il sordido e il sadico che si era già visto in tralice nel sopravalutato e in realtà discutibilissimo XXY sempre di Puenzo che fa dell'eccesso eccentrico e morboso la coordinata centrale di un omoerotismo irricevibile e, per fortuna, tiepidamente accolto dal pubblico.



Zenne Dancer (Germania/Olanda/Turchia, 2011) di Caner Alper e Mehmet Binay racconta con un gusto squistamente cinematografico per il racconto di invenzione una storia purtroppo vera di discriminazione e pregiudizio contro l'omosessualità in Turchia, tra famiglie rigide e inamovibili, e Stato che riforma gli Zenne (le checche) solo se i giovani presentano prove inequivocabili della loro vita di sodomiti (foto eloquenti... E non è una invenzione cinematografica).
Così anche il giovane Ahmet che non zenne non è uno zanne è costretto a fingersi checca  per essere riformato e ottenere il passaporto per andare in Germania col suo compagno Daniel, fotografo di fama venuto in Turchia per ritrovare se stesso in seguito a un incidente durante le riprese di un reportage in Afganistan quando alcuni bambini sono saltati su una mia mentre lui faceva loro delle foto. Il padre di Ahmet pensa bene di sparare al figlio in pieno petto per lavare nel sangue l'onta dell'omosessualità. Purtroppo non si tratta di invenzione e durante i titoli di coda vediamo il vero Ahmet (ancora più maschile del suo doppio di finzione) in foto e anche in un breve spezzone video. Un film lucido che non si sofferma solamente sulla condizione delle persone omosessuali ma anche su quella delle dome in uno stato come la Turchia che, pure, fa parte della comunità europea, come d'altronde ne fa parte anche l'Italia che inq uanto a omofobia non ha nulla da invidiare...

Lo slot delle 22 e 30 prevede la proiezione di Una notte ancora (Italia, 2012) un corto girato con eleganza e una splendida fotografia che racconta dell'ultima notte di una coppia di ragazzi, con uno dei due è più giovane (ma non così tanto) dell'altro, il quale, dopo diversi anni di convivenza, decide unilateralmente e all'improvviso di concludere la storia. Da allora l'abbandonato frequenta solamente un escort (sempre lo stesso e molto meno bello del ragazzo che è andato via...) col quale rivive quell'ultima notte.
Capisco che l'immaginario collettivo omoerotico cinematografico italiano sia ancora vergine e che abbisogni di ogni tipo di storia. Mi chiedo però che effetto avrebbe avuto questa storia se al posto del ragazzo giovane ci fosse stata una ragazza giovane e al post dell'escort una prostituta...
Un po' di sano dolore e poi andare avanti no?

Comunque beato il protagonista che può pagarsi un escort.
Io manco posso pagarmi le bollette...

E' poi la volta di Lovely Man (Indonesia, 2011) di Teddy Soeriaatmadja racconta di un omosessuale che si prostituisce, travestito da donna, e che ha rubato dei soldi a una bada losca per potersi operare e stare con l'uomo che dice di amare. La visita imprevista della figlia che non vede più da 15 anni (quando la ragazza ne aveva quattro) anche se a lei e a sua madre continua da allora a mandare mensilmente dei soldi, venuta a consocere il padre, ne sconvolge i piani.
L'uomo Prima la rifiuta, poi accetta di trascorrere qualche ora con lei se le promette di non cercarlo in futuro. Passano una notte tra racconti e confronti, dove la figlia conosce anche le amiche di battuage del padre, e accetta i suoi consigli sulla gravidanza indesiderata, che è il vero motivo ad averla condotta lì. Alla fine, prima del commiato il padre dà i soldi che gli servono per l'operazione alla figlia e ribadisce che non si rivedranno più.
Commovente quando vediamo padre e figlia ridere circondate dalle altre travestite, o quando il padre si compiace che la figlia dica della gravidanza al suo ragazzo, che ancora non lo sapeva, rassicurandola che non è detto che lei faccia gli stessi suoi errori solo perchè sono padre e figlia.
Soeriaatmadjaha il gusto nellos viluppare le scene anche visivamente e sa restituire con tanti dettagli un rapporto che è alle prime armi tra figlia e padre scena però il film si arrende completamente ai limiti culturali con cui un omosessuale filippino vive la propria identità sessuale, preferendo normalizzarsi operandosi da donna piuttosto che cercare un uomo suo pari col quale vivere liberamente una storia d'amore. Discutibili alcuni dettagli che sono gli unici coi quali il film ci spiega il personaggio del padre: a tutti piace farsi venire in bocca (come il film lascia più che intendere) magari non a tutti piace che a farlo sia un cliente e non la persona che amiamo o qualcuno che abbiamo scelto liberamente perchè ci piace fisicamente e non perchè ci paga.
Così com'è triste pensare che l'unico modo che l'uomo abbia per rivendicare la propria omosessualità sia quella di vestirsi da donna e prostituirsi. Purtroppo però il film non inventa ma constata una realtà diffusa in un Paese come le Filippine dove il conformismo eterosessista permette all'omosessualità solo questa modalità di esistenza. 

Dopo tutto vivere in Italia non è poi così male...

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