E' caratterizzato da tre aspetti:
1) Biologico (si è maschi, femmine o intersex)
2) Identità (la disforia basata su fattori ormonali, in aumento per via del cibo che mangiamo pieno di ormoni)
3) espressione di genere (determinata culturalmente)
Questo il nodo centrale della chiacchierata con Jonathan Skurnik di ierisera, alle 20-00, prima della proiezione dei due film della seconda serata del GenderDocu Film Fest 2012.
Come avevo intuito, e ierisera Skurnik me ne ha dato conferma, questo modo di pensare il genere sessuale (gender) è platonico e realista.
Individua, cioè, delle differenze dal modello standard (culturale e stereotipato) di maschile e femminile e invece di provare a cambiare aspetti e connotati culturali cerca di trovarne la radice della differenza nella biologia, che è un po' come cercare il gene dell'omosessualità, cioè trovare scritto nella biologia del nostro corpo frutto di una evoluzione biologica durata milioni di anni un concetto culturale che nasce quasi 200 anni fa...
A riprova che diagnosticare il transgederismo in persone prepuberali è un abominio Skurnik ci ha aggiornato su quanto successo ad Anneke dopo i fatti raccontati nel suo cortometraggio: Anneke è stata convinta alla riassegnazione del sesso, dai genitori e dal medico e oggi è un ragazzo.
Skurnik stesso ha dovuto ammettere che questa scelta è frutto di un pregiudizio altrimenti Anneke sarebbe rimasta nel suo stato di genere fluido.
Quel che Skurnik intende per genere fluido è semplicemente una femmina (un maschio) che non si conformano agli stereotipi di genere.
Mai come ierisera mi è stato chiaro le persone le vittime del nuovo millennio sono le persone transgender definite (e discriminate) in base allo stesso equivoco epistemologico terzosessista che ha preteso per decenni che i gay e le lesbiche fossero femmine e maschi mancati.
Oggi è la non conformità agli stereotipi di genere a farti entrare nel transgenderismo.
Skurnik cita un libro che tiene in grande considerazione The Trangender Child
A Handbook for Families and professionals di Stephanie A. Brill, Rachel Pepper a pagina 3 del quale nel paragrafo How Can You Know a Child Is Transgender? si legge:
The Trangender Child A Handbook for Families and professionals |
Siamo tornati davvero agli anni 50 e il grosso guaio è che nessuno sembra non solo accorgersene ma nemmeno provare a fermare questi nazisti, questi Mengele del transgenderismo che femminilizzano e maschilizzano maschi e femmine appena questi preferiscono un costume da bagno con un fiore in più o fanno la pipì in piedi...
In realtà, spiegano le due autrici,
Quindi i bambini e le bambine che no si omologano agli stereotipi di genere vengono catalogati come gender-nonconforming child.
Come dire che le lesbiche e i gay sono sexual orientation-non conforming people...
A pagina sei di questo libro degli orrori si legge questa definizione
Come dire che le lesbiche e i gay sono sexual orientation-non conforming people...
A pagina sei di questo libro degli orrori si legge questa definizione
Se lo fai per poco va bene, se lo fai per molto, o per sempre, allora sei non conforme.
Più fascista di così!
Intelligenti, artistici e sensibili, proprio come una volta si diceva dei gay.
La cosa sconvolgente è che invece di modificare il mainstream si vedono questi bambini e queste bambine come persone che vanno contro il mainstream.
Cioè conta di più un concetto che dovrebbe servire a descrivere la realtà invece di tener conto che se quel concetto non descrive più la realtà in maniera adeguata è il concetto a dover essere modificato. Invece questi Nicolosi del transgenderismo pretendono di modificare le persone pur di non mettere in discussione l'idea che mettere una mutanda coi fiori sia una cosa da femmine
Tornerò su questo libro appena avrò modo di leggerne qualche stralcio in più. Intanto santo amazon.com e le sue preview!
E veniamo ai film visti ieri sera.
Il primo è Gvarim Bilti Nir'im (The Insible men) un documentario di Yariv Mozer che racconta la storia di Louie, un ragazzo gay palestinese che vive da 10 anni, da clandestino, a Tel Aviv.
Tramite i racconti suoi e di Abdu e Fares, altri due ragazzi arabi palestinesi, conosciamo storie di rifiuto, di arresti in Palestina (dove l'omosessualità è reato) e in Israele dove Louie non può avere un regolare permesso di soggiorno in quanto palestiense viene continuamente arrestato e rimpatriato in Palestina (anche quando ha ottrnuto l'asilo in un paese terzo...) non importa le minacce di morte ricevute dal padre..., ancora storie di ludibrio familiare che arriva sino alle minacce di morte.
Quando un amico di Louie mostra alcune sue foto intime col suo ragazzo a suo padre questi lo aggredisce con un coltello colpendolo in viso sul quale rimane, indelebile, una cicatrice.
Un doppio orrore quello della cultura arabo palestinese che uccide i figli maschi omosessuali e quella nazista del governo di Israele che in nome di un odio razziale cieco e ignominioso (la storia non insegna nulla a nessuno a quanto appare...) rispedisce gli arabi a casa loro anche se sono froci e possono crepare sgozzati come agnelli (sono parole di Louie).
Un film di palestinesi e arabi, dove Luoie soffre a lasciare Israele che considera posto vicino a casa sua e non vuole imparare una lingua e una cultura altra (andrà in Svizzera in un paesino con la neve...) che ignora il consumismo gaio dei palestinesi ma mostra come gli arabi palestinesi vivono la propria omosessualità da clandestini in Tel Aviv (una festa una volta al mese in posto segretissimo, perchè molti arabi lavorano nella zona palestinese della città e se vedono un parente omosessuale lo rapiscono lo riportano a casa e lo uccidono...).
Un documentario che dice molto e informa e denuncia mostrando come molti israeliani e israeliane, militanti, volontari, avvocati, aiutino questi giovani uomini la cui vita è indifferente al governo di Israele.
Però il documentario è troppo scritto, troppo leccato, una fotografia splendida, ha tropo la vocazione di cogliere le cose nell'attimo in cui succedono (Louie riprende con una sua telecamera i suoi cani proprio quando arriva la polizia a fare una retata e lui si riprende mentre si nasconde dai poliziotti e chiama il regista del film... regista che non appare mai in campo.
Quando Luoie deve lasciare la sua casa per alcuni giorni lo vediamo dormire per strada (cioè il regista si limita a filmare la sua notte all'addiaccio? Non poteva ospitarlo a casa sua o da amici?).
Abdu, uno dei tre protagonisti del documentario |
Louie, il protagonista. . Notare la cicatrice sulla guancia segno della coltellata infertagli dal padre |
Fares, il terzo palestinese del documentario |
Insomma un documentario che ha troppo la vocazione del film, fatto che se non intacca minimamente la potenza o l'importanza della denuncia e del racconto che fa, getta però un'ombra ambigua sull'etica e la politica di un racconto che si presenta per altro da quel che è, spacciandosi per racconto vero, immediato, per un documentario mentre è una ricostruzione che pur non intaccandone la verve informativa ne appanna quella documentale, piegando la verosimiglianza alle esigenze dello spettacolo (come l'insostenibile lieto fine) e del racconto.
Per cui alla fine meglio leggere un articolo, magari quello di Sarah Schulman sul New York Times che vedere un documentario che si fa vedere come un film senza essere alla fine nessuna delle due cose.
E poi la volta di Unter Männern: Schwul in der DDR [t.l. Tra uomini froci nella DDR] (Germania 2012) di Ringo Rösener, Markus Stein.
L’idea di realizzare il documentario è venuta a Ringo Rösener, che è partito dalla considerazione di essere nato nella DDR nel 1983 e di non avere dunque memoria di come fosse la vitae da gay nella Repubblica Democratica Tedesca e cerca di ricostruire quel tempo attraverso le interviste a sette uomini gay:
Il parruccheire Frank Schäfe, figlio di un noto comico della DDR, regolarmente arrestato dalla polizia (una volta anche stuprato); Jürgen Lemke, autore di un libro sulla vita gay nella DDr del 1989 dal titolo Ganz normal anders; Christian Schulz un insegnante di latino che cerca di sublimare l'omosessualità nello sport e poi cerca di curarsi da uno psichiatra prima di risolvere le proprie pulsioni, come molti altri, nei gabinetti pubblici; Helwin Leuschner, figlio di immigrati tedeschi in Cile che pensa alla DDR come al paradiso per gli omosessuali. Non manca l'attivista più famoso della DDrREddy Stapel detto il pastore dei gay tenuto sotto controllo dalla Stasi (I servizi segreti di Stato), che gli mandò persino quattro Romeo, spie che dovevano fidanzarsi con lui e riferire tutto ai superiori... fino al famoso illustratore grafico Jürgen Witt che non si rende subito conto di essere gay saranno i suoi estimatori che apprezzano i suoi ritratti di nudo maschile a fargli capire la propria omosessualità rivolgendoglisi come se ne fosse consapevole... Infine Joe Zinner, il più giovane degli intervistati che vive da gay in un villaggio della Turingia, scoprendo che dopo aver fatto coming-out altri troveranno il coraggio di farlo...
Il documentario è caratterizzato da una reticenza cui fa da contraltare quella degli intervistati. Nulla ci viene detto della vita nella DDr in quegli anni che non venga dedotto dal racconto, rapsodico e parziale, dei sette intervistati.
Un racconto caratterizzato da brani di vita personali che però non distinguono sempre la vita da frocio nella DDR ma più in generale quella di una intera generazione di omosessuali che, per esempio, non avendo locali dove incontrarsi, andava nei cessi, ma questo, ricorda giustamente Stapel, accadeva non solo a Berlino ma in tutte le capitali europee.
Quello cche manca al documentario è un punto di vista proprio che si ponga tre le dichiarazioni degli intervistati e il suo pubblico fornendogli informazioni, uno sfondo storico dal quale queste sette interviste possano emergere come testimonianze, Tutto invece è appiattito dall'ingenua convinzione che basti il racconto di ciascuno di loro per farne una testimonianza storicamente spendibile dalla quale gli spettatori e le spettatrici possano imparare qualcosa. I due autori del documentario non glossano mai nemmeno su alcune affermazioni infelicidei sette intervistati come quella di Schäfe che si chiede come sarebbe svegliarsi un giorno eterosessuale paventando le lunghe serate a corteggiare le donne portandole a cena e intavolando lunghe conversazioni aspettando che siano pronte (per andare a letto) o il racconto di Witt che nara di come uno dei suoi denigratori una sera, lasciato dalla moglie, ubriaco, pensò di penetrarlo, ma fui io a penetrare lui, era troppo ubriaco per difendersi, e così mi sono vendicato.
A parte alcuni timidi brani tratti da filmati e foto dell'epoca e varie scene del primo film apertamente a tematica gay prodotto nella DDR Coming Out di Heiner Carow del 1989 che uscì lo stesso giorno che il murò crollò, del quale il documentario si diverte a rivisitare spazi e scene, il film manca di una vera curiosità storica che contestualizzando queste sette testimonianze restituiscano davvero uno spaccato della vita da froci nella DDR.
Nessun accenno storico, nemmeno al famigerato paragrafo 175, abolito nel 1094, che rendeva l'omosessualità maschile illegale, cose che magari sono note ai tedeschi (militanti omosessuali) ma assolutamente ignote al resto dei cittadini europei cui pure il film si rivolge.
Tutte le informazioni sui sette intervistati e sulla situazione nella DDR non li ho dedotti dal documentario ma dal press-book del film e da un articolo preziosissmo al quale devo quasi tutto di Simone Buttazzi che ne ha palrato lo scorso Febbraio durante il passaggio del documentario al festival di Berlino.
Unter Männern: Schwul in der DDR è più interessato a rivisitare i gabinetti dove si faceva sesso (oggi in disuso ma ancora accessibili) che a contestualizzare la vita da gay nella DDR. Dopo un'ora e 30 di proiezione sulla vita dei gay nella DDR non ne sappiamo molto di più che prima di aver visto il documentario che si attesta su una sensibilità gay consumistica quella delle discoteche e del sesso promiscuo (con qualche perla qui e là magra consolazione data l'estenuate durata di 90 minuti del film che poteva durarne benissimo la metà).
Del tutto inutile la testimonianza di Joe Zinner simile a quella di tanti altri gay occidentali (paura, accettazione litigio con la madre) col quale pure, il film si conclude. Vediamo Zinner che per tutta l'intervista si è mostrato col pizzetto radersi, truccarsi e vestiri da donna, nei panni della “principessa del vetro”, e camminare salutando tutti per le vie del suo paesino nella Turingia mentre ascoltiamo l'aria O mio babbino caro dell'opera Gianni Schicchi (1918) di Giacomo Puccini nella quale la figlia minaccia il suicido se il padre non le farà sposare l'uomo che ama...
Un finale queer per un film che sussume la vita delle persone omosessuali (solo gli uomini le donne non contano) secondo i canoni del gay gaudente e grande consumatore di sesso, senza mostrare (anche se qualche accenno alla vita di coppia vene fatto) le loro famiglie o i loro rapporti stabili, senza nemmeno riannodare, anche con pochi cenni, le fila di questi racconti passati con la contemporaneità della vita delle persone omosessuali. Quasi a ipostatizzare che tra allora e adesso non ci siano differenze. Come se nelle confessioni della pavidità e nella vita di sotterfugi e vite nascoste si celi la vera cifra esistenziale dei froci (non solo) della DDR non per costrizione sociale o omofobia intriorizzata, ma per vocazione propria, per congenialità.
Un film inutile, noioso e irritante del quale si poteva benissimo fare a meno.
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