sabato 28 agosto 2010

Gender Docu Film Festival: day One and Two



Giovedì sera ha debuttato il Gender Docu Film Festival 2010, la nuova creatura di Giona A. Nazzaro, Gay Village, D gay project  e Provincia di Roma (con tanto di Zingaretti che domani stasera sarà al Village a consegnare i premi dei documentari presentati).

Le intenzioni del festival sono riportate nell'apposita sezione del sobrio sito del Festival nella quale si afferma di voler lanciare anche in Italia i gender strudies e affrontare tramite i documentari una ricerca che porti a deostruire le identità di genere  biologicamente ascritte a cliché invece storicamente determinati.

Un programma interessante, una dichiarazione encomiabile che trova nel riconoscimento della Provincia di Roma un primo riconoscimento di serietà e credibilità.
Questa prima edizione, chiamata televisivamente edizione pilota è, si dice sempre il sito, una dichiarazione di intenti.

Intanto auguriamo al festival una sede più adatta di quella del Gay Village i cui avventori, maleducati e incapaci di convivere con una rassegna che presenta strani film in lingue diverse dall'italiano (con doppi sottotitoli, italiani e inglesi idea civile per permettere ai non italian speaking people di seguire i film lo stesso) parlano e smaniano attenendo la fine del film perchè loro devono ballare e il festival si svolge in una delle piste da ballo, fregandosene di gente che è venuta lì a seguire i film di una rassegna. Un ragazzino parlava a due metri dalla sedia di una mia amica, lei gli chiede di fare silenzio, lui, trasecola, si gira verso lo schermo a quale dava le spalle, come se se ne fosse accorto in quel momento  poi guarda la mia amica e le risponde beh tanto deve leggere i sottotitoli mia deve sentire. I ragazzi del village per anticparsi il lavoro togleivano le sedie mentre Giona palrava ancora con i registi dei documentari cercando di convolgerli in un dibattito col pubblico. E durante tutte e due le proiezioni di ieri sera C8osì come le tre della sera precedente) la gente chiacchiera allegramente come fosse davanti al pc di casa propria...
Mai più al Village spero, almeno non coi soldi pubblici!

Sede cafona e rumorosa a parte i film fin qui presentati (quelli di stasera li rendiconterò domani) sono ben lontani dalle dichiarazioni di intenti del festival,
Le opere selezionate portano avanti un discorso coerente sui tratti specifici dell'identità maschile e femminile e sul corpo umano come territorio da   esplorare, da riconquistare e perfino da modificare.

sia nei contenuti che nelle forme.


L'Esprit De Madjid di Ines Johnson-Spain, (Germania 2009)

Racconta di Madjid, un ragazzo africano (non ci è dato sapere quale paese, eppure l'Africa è un continente enorme) che, a differenza di quanto riportato nelle breve note che accompagnano l'opuscolo (e che si trovano anche sul sito) non racconta della propria omosessualità, (la parola non viene nemmeno mai pronunciata nel documentario). Racconta solo della propria effeminatezza, e degli spiriti guida che secondo lui l'hanno causata, della sua attività di parrucchiere e di praticante dei riti vodoo, che pratica perchè gli effeminati come lui sono presi in giro nel paese (ma poi con altri amici ha formato un gruppo che va in giro vestito da donna col permesso del prefetto altrimenti è illegale). Nulla ci dice il documentario sul paese e le sue leggi oltre a quello che ci dice Madjid, e del quale non sappiamo nulla, né orientamento sessuale (almeno che non si dia per scontato che essendo effeminato sia gay...) né della sua vita sessual sentimentale, né di dove vive, con chi. Una intervistatrice pavida e poco presente, in una intervista lenta, piene di pause e ripetizioni che potevano benissimo essere tagliate accorciando la durata del documentario  che poteva durare 20 minuti di meno senza nulla toglierne al contenuto informativo, comunque davvero scarso. Anche la lunga sequenza sui riti voddo è data in pasto allo spettatore occidentale senza alcun aiuto per cui non sai a cosa stai assistendo e devi rifarti a quel che sai (cioè nulla) sul voddo (ammesso che quel che abbiamo visto lo fosse). Nè un documentario antropologico sul voddo né una inchiesta sull'effeminatezza nel mondo africano.

Anzi l'occhio della regista è alquanto bidimensionale e non riesce ad entrare con la videocamera  nei riti, limitandosi a ritrarne la superficie (senza nulla spiegarci di come è stata accettata dagli officianti che hanno deciso di essere ripresi da lei dunque modificando il rito stesso).
E poi cosa diavolo c'entra un ragazzo un po' checca con l'identità di genere? Non cadiamo nel classico errore di confondere orientamento sessuale con identità sessuale?
dov'è l'identità di genere? dov'è la storia? Dove l'antropologia. Antropologia cioè studiare gli altri per capire noi stessi meglio e non etnologia come dicono le note cioè studiare gli altri inq uanto diversi  ebasta.
Questo la dice lunga sullì'etnocentrismo insito prima ancora che nel docuemntario nel compliatore del festival (o, almeno, in chi ha scritto queste note).

Insomma 58 minuti per dire che le checche parrucchiere in Africa fanno il vodoo, possedute  da spiriti con tre teste (due maschili  e una femminile o viceversa) e da un altro spirito femminile e per questo lui è effeminato, ma dove non si parla né di sessualità né di affettività gay, ma solamente di effeminatezza e vodoo... pratica dove si balla seminudi, in trance e si ammazzano innocenti galline.

Insomma le brasiliane hanno in testa un cesto di frutta come Carmen Miranda...

Un po' poco, no?

hould I Really Do It di Ismail Necmi  (Turchia 2009) 90 minuti

Viene presentato come un film che racconta di Petra che dalla Germania si è trasferita a vivere a Istanbul, rovesciando lo stereotipo dell'immigrazione turca.


Ora il film, interessante, anche se eccessivamente lungo nel suo dipanarsi, usa la location di Istambul come un semplice altrove che ha poco della Turchia e potrebbe davvero essere qualunque altro posto. Il film si dipana tra una (o più?) sedute tra Petra e il suo psicoterapeuta fetish (indossa una maschera di gomma nera e una parrucca bionda...)  e la storia della donna che emerge man mano, tra la sua vita come parrucchiera e artista affermata (a Istambul) e la morte per cancro della sua sorella gemella per la quale torna a Berlino pur non volendoci stare. Tutto raccontato con colpi di scenaad effetto epiù da fiction che da documentario che, visto che racconta fatti veri(?) svilisce un po' la mrote della sorella, spettacolarizzata. Un film interessante (che poteva durare tranquillamente meno) che parla di una donna che pur sposandosi ha scelto una vita diversa da quella delle casalinghe. Ma bisogna mostrare una consumatrice di droga, artista e parrucchiera che si sente vecchia a 38 anni per dimostrare che le donne possono liberarsi dai cliché donneschi
Un'ora  e mezzo di Petra per dirci che anche lei, coi capeli corti e sale e pepe è donna come Sharon Stone. Un'etero senza che il film affronti il cliché che vuole un certo tipo di donne cui Petra figurativamente spartineve allo stereotipo della lesbica dyke.

E, di nuovo, ci chiediamo (no, non sto usando il plurale maiestatis, ci chiediamo io Guido e Andrea che siamo andati alla prima serata insieme), dov'è il coté dei gender studies? Qual è il rapporto tra la vita vera di Petra e la messa in scena di questo psicoterapeuta fetish? Al di là di una certa ricercatezza nelle immagini, nella fotografia, un film che lascia perplessi perchè vale come film a sé ma collocato all'interno di un Gender docu festival risulta eccentrico (nel significato letterale del termine).
Sfiancati da una kermesse (due ore e messo di visione so far) che costringe Giona a introdurre i film senza presentarci gli autori (che però sono venuti a Roma a spese nostre cioè della Provincia di Roma) arriviamo al terzo documentario.



Ella Es El Matador di Gemma Cubero del Barrio e Celeste Carrasco (Spagna 2009)
62 minuti


Il più interessante dei tre, quello anche più centrato con la mission (o il trend?) del festival e anche quello con la più sincere avocazione documentaristica. Ci parla di una giovane ragazza di origini italiane che va a vivere in Spagna per divettare una matador (torero è termine italiano che sottolinea il fatto che il matador ha a che fare con  l'animale, il termine spagnolo il fatto che il Torero mata el toro)  ma deve fare almeno 20 corride prima di diventare una professionista ma il mercato delle corride è un posto maschilista e la nostra giovane matadora non riesce a coronare il suo sogno. Le sue vicissitudini sono contrapposte (narrativamente) a quelle di Maria Paz Vega l'unica matadora in carica in questo momento in Spagna. Nonostante non si dilunghi sulle tecniche questo documentario riesce a far capire e apprezzare l'attitudine del matador, su come rischia la vita di fonte al toro (Maria Paz ha pezzi di metallo dentro un femore...) di come dimostra il coraggio inginocchiandosi davanti al toro (che potrebbe incornarla) prima di sferrare il colpo di spada che lo finisce. Una cruenza contro il toro ingiustificata e che non mi fa cambiare giudizio sulla corrida ma per la prima volta ho capito il punto di vista di chi va a vederla. Non va a vedere l'assassinio di un animale va a vedere l'arte del matador.  E, intanto, intervistando esperti storici il documentario ci racconta di come già nel XIII sec in Spagna c'erano matador donna e di come ci sinao smepre state fin quando la dittatura di Franco le vietò negli anni 50 (riammesse nei primi anni settanta grazie a una matador donna molto coraggiosa) mentre in Messico per esempio non è mai stato vietato alle donne (comprese delle spassosissime suore matadore!!!).
Un documentario bellissimo che mi ha davvero insegnato molto,  che però ha poco a che fare con l'identità di genere (nessuna matadora è considerata meno femminile per il lavoro che fa) ma più col maschilismo dell'ambiente delle corride.


E avendo fatto le 24 e 30, stanchi ed estenuati da 3 ore e mezzo di film, Io, Andrea e Guido ce ne andiamo chiedendoci che cosa c'azzeccassero questi tre documentari coi gender studies  (un approccio multidisciplinare e interdisciplinare allo studio dei significati socio-culturali della sessualità e dell'identità di genere.) (fonte wikipedia)


E ce lo chiediamo ancora.


La giornata di ieri ha visto solamente due film (ma abbiamo sforato le 24 lo stesso e per fortuna che ho incontrato Mariù e Francesca che mi hanno riaccompagnato a casa...).

Il primo Stretch Marks (smagliature) di Zohar Wagner, Israele 2009  67 minuti
racconta di una rockstar (?!) israeliana incita che coraggiosamente, introduce Giona, mostra il suo corpo col pancione, che vorrebbe fosse ancora oggetto d desiderio sessuale. Il documentario ci racconta dei suoi rapporti col padre della bambina che sta per avere, col compagno attuale (che non vuole entrare in sala parto perchè non è una cosa da maschio) che si offende se il suo compagno non la trova desiderabile, se la trova culona e il cui pancione non gli fa sesso al quale però si pone non come soggetto femminile, donna auto emancipata, ma come oggetto sessuale, non ti piacciono le mie tette gli chiede (che in israeliano si dice, scrivo la pronuncia, zizzi), confessando a un'amica di averlo conquistato proprio con le tette che sono più grosse del normale proprio perché incinta...
Insomma paranoie di una donna molto comuni che ci fa vedere molto senza farci vedere nulla come millanta la scheda del film un film pieno di pruderie sulle funzioni organiche (pipì, cacca, sangue) tagliando via ogni momento del parto che mostri liquidi organici e sangue ma mostrando un quarto d'ora di travaglio durante il quale le vene massaggiato il sedere da una donna anziana (la madre?) proponendo un'estetizzazione della donna incita già sfruttata da Altman in pret-à-porter... 
Una storia antifemminista par excellence lo conferma la mail spedita a Giona (la regista-autrice non è potuta venire a Roma) che ci spiega come a tre anni dal parto ancora non sappia dedicarsi al suo uomo o a sua figlia e che deve imparare a gestirsi nel ruolo di donna e di mamma in termini che qualunque femminista si arrabbierebbe a morte sentire e a ragione. Lo conferma anche la presentazione sul sito del D Gay project nella quale si dice che la donna è combattuta tra i desideri sessuali e il ruolo di madre come se i due ruoli fossero davvero antitetici e non siano visti così solamente dalla società patriarcale...
Un film tradizionalista dunque che poco fa figurare i gender studies che dovrebbe incarnare...


Too Much Pussy  di Émilie Jouvet, (Germania 2010)  80 minuti
E' il film finora più interessante. racconta di alcune attrici performer che lavorano sulla sessualità femminile vista in chiave lesbo (prodotto da una casa tedesca specializzata in porno gay...).
Il film, estenuantemente lungo oltre ogni misura, alterna brani delle performance (con rirpese poco più che amatoriali però) ai discorsi delle ragazze che si conoscono man mano che fano la tourneé.
Quel che il film non spiega (lo farà la regista, intervenuta dopo l avisione) è che le attrici non si consocevano prima e sono state unite per fare questo film le cui perfromance dunque non sono il frutto di un lavoro colettivo ma della volontà della regista. Questo però il film non lo dice facendo credere che le attrici lavorino insieme normalmente...
Questo, oltre al fatto che non si capsice (perchè il film non lo spiega) a quale pubblico si rivolgono queste perfromance (a un pubblico teatrale? O dei locali? e di che tipo di lcoali? femminoi? femministi? lesbici misti? porno? etero? gay? Il film non lo dice) inficia l'aspetto documentale del film che ritrae delle performance che non sarebbero esistite se non ci fosse astato il filma  riprenderle (anche se sono davvero state fatte nei posti ripresi, ma per commissione del film) mentre valore documentale hanno i momenti di vita insieme, di confronto-racconto delle varie performer. Lo stile, ridondante e ripetitivo, estenua lo spettatore che alla fine soccombe a un racconto magmatico che poteva essere fatto più organicamente e ridurre la durata da 80 a 40 minuti senza fare troppi danni.

L'unico film davvero dentro la questione gender anche se dal punto di vista lesbico (come fosse il punto di vista precipuo del femminile, del femminismo o dell'essere donna) e dove la mancanza totale della parte maschile non permette di affrontare e criticare il maschilismo contraltare di tante distorsioni dell'autopercezione di genere (o de-genere).

Sfiancate dai coatti cafoni che ci parlano sopra (i film) perché non vedono l'ora che schiodiamo per sculettare con le amiche, io Marilù e Francesca ce ne andiamo desolate e stanche, un po' deluse e assonnate.

E un secondo giorno di festival si conclude con scarso entusiasmo.

Ultimo appunto: la conduzione di Giona, incapace di interagire tra pubblico e ospiti (quando qualcuno del pubblico, nelle prime file, dunque vicino a loro, fa una domanda, la traduce alla regista (nonostante ci sia un traduttore ufficiale) ma non la ripete al microfono per gli spettatori, un po' per timidezza un po' per mancanza di savoir faire anche se è difficile fare gli onori di casa...

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