sabato 31 agosto 2013

quarta edizione del GenderDocu Film Fest: la seconda serata

Tre i documentari in programma per la seconda serata della quarta edizione del GenderDocu Film Fest.

Si è cominciato con il piccolo (per la durata) sorprendente film documentario di Filippo Demarchi, Taglia corto! (Svizzera, 2013). Giovane di Losanna, nato a Zurigo, Demarchi ha girato il suo film in Italiano, che è la lingua madre del padre ma non della madre.
Il corto, che è il saggio di fine corso alla École Cantonale d'Art de Lausanne, ritrae i genitori del regista mentre discutono con lui della sua omosessualità che entrambi non riescono ad accettare. Il padre gli garantisce il rispetto ma non il sostegno mentre la madre è più interessata che il figlio si lasci la porta aperta anche verso le ragazze.

Girato senza una particolare ricerca formale dell'inquadratura, il corto, selezionato da diverso materiale registrato, restituisce con una icasticità commovente un confronto familiare tra tre adulti: padre, madre e figlio 24enne, il cui rispetto individuale è riscontrabile sia nella reciprocità sia nella onestà intellettuale con la quale sanno tutti e tre guardarsi dentro e comunicare l'uno con l'altra .

Così il figlio chiede solidarietà ai genitori non in nome di un astratto rispetto per la diversità ma perchè vorrebbe avere dei consigli sul ragazzo del quale è innamorato.
Il padre a vedere la foto del ragazzo (molto giovane, con i capelli lunghi biondi e fluenti) commenta che sembra quasi una ragazza e quini tanto varrebbe che e che pensando agli uomini si immagina persone più maschili di quelle che piacciono al figlio.
Nessuna imposizione, nessun dover essere, solo un onesto confronto tra quello che si pensa, si sente, ci si aspetta.

Il figlio può così dire al padre senza rimproveri di esserci rimasto male quando una volta, prima del suo coming out, gli ha presentato un suo amico, del quale il padre gli aveva chiesto se fosse gay perchè il figlio si è snetito sentito sminuito nella sua amicizia, platonica,  con quel ragazzo, che il padre riduceva a una questione sessuale.

Mentre il padre commenta che all'epoca lui non sapeva che il figlio fosse gay il figlio da un lato afferma il suo risentimento per quel modo di pensare, dall'altro riconosce al padre, come individuo, il diritto di esprimere le proprie idee anche se lui le aborre chiedendogli poi come dovrebbe reagire (ti dovrei forse odiare?).
La madre dal canto suo lo esorta a non farsi influenzare negativamente dalle loro reazioni o commenti negativi.

Ai dialoghi tra padre madre e figlio, insieme o separatamente, nei quali il figlio è presente solo in voce trovandosi sempre dietro la videocamera e dunque fuori campo Demarchi alterna alcuni momenti di vita familiare (le cure del giardino dove il padre gli dice cosa potare e cosa no o come muovere ila tosaerba in un confronto tra quotidianità ed eccezionalità che restituisce l'idea di una vita familiare è già una ricostruzione dei rapporti e degli assetti genitori figli che per gli standard della famiglia Demarchi è un processo normale pur in una dialettica di rifiuto ma che, visti con l'occhio cattolico italiano è un paradigma quasi irraggiungibile.


Senza insistere troppo sulla chiave religiosa intesa qui nella sua dimensione culturale e non confessionale la statura etica di queste persone, di questa famiglia è anni luce lontana dalle bassezze delle famiglie italiane, quelle in cui ancora oggi i figli e le figlie omosessuali vengono letteralmente buttati e buttate fuori di casa dai genitori senza che i figli e le figlie così illegalmente trattai\e non si ribellano e non rivendicano i propri diritti rivolgendosi come si dovrebbe sempre fare a un giudice. Perchè anche nell'Italia omofoba a un genitore a una genitrice non  è più consentito di cacciare di casa e smettere di mantenere un figlio o una figlia perchè omosessuali. Sono lontani per fortuna i tempi del caso Braibanti.

Invece nella maggior parte dei casi la prole non rivendica i propri diritti perchè in fondo, là dove si annida l'omofobia interiorizzata, non vogliono imporsi ai propri genitori e si sottraggono a un confronto anche duro, aspro, inchiodandoli alle loro responsabilità.

Questo cortometraggio mostra come se la forma documentario sa cogliere la realtà (a saperlo usare bene naturalmente non è un risultato che si ottiene automaticamente) questo non è certo garantito dalla presa diretta ma dall'operazione che segue (il montaggio del materiale selezionato) e precede le riprese.

All'inizio, ha raccontato Demarchi presente al Village, i genitori non volevano affatto parlare del suo coming out e pretendevano di essere presentati come esperti di capitalismo ai quali il figlio doveva rivolgersi dando loro del lei.
Poi l'insistenza e la pratica di ripresa hanno ammorbidito i genitori ed è stata resa possibile una modalità comunicativa così intima e spontanea nonostante la presenza della videocamera.
Un processo graduale e non sempre facile del quale rimane una traccia anche nella  selezione drastica fatta da Demarchi (appena 13 minuti di durata, essenziale anche in questo in controtendenza rispetto una certa tendenza alla pletoricità che molti cineasti della camera verità hanno)  quando a un certo punto il padre si sottrae all'intervista definendola una pagliacciata e Demarchi continua a riprendere il suo posto vuoto.

Sottraendo il corto all'equivoco che la verità di quanto accade sullo schermo scaturisca naturaliter dalla spontaneità della diretta e non dall'istanza produttrice che riprende e monta le riprese Demarchi si attesta nel cuore del meccanismo documentario che è sempre un meccanismo traslato perchè la verità non sta nelle immagini mostrate ma in quell'oltre che hanno determinato quelle immagini, in un prima e un dopo la ripresa di cui il cortometraggio è un esempio paradigmatico della stessa una pratica discorsiva dei tre protagonisti. Un confronto d'altissima onestà intellettuale.

Presente anche sulla rete con altri lavori Demarchi si distingue per il discorso intelligente e l'occhio sincero che sanno usare gli strumenti video della contemporaneità sottraendosi alla estetica farlocca dell'immediato e della spontaneità sostenuta dal mercato e cerca, riuscendoci appieno, di usare il video per mostrare quell'oltre pirandelliano raggiungendolo con incedibile efficacia.



Più tradizionale e privo di novità formali il mediometraggio con alcune lungaggini e ripetizioni  My Love – The Story Of Poul and Mai (danimarca, 2013) di Iben Haar Andersen.
64 minuti di durata che potevano benissimo scendere a 50 nei quali la regista allestisce un materiale raccolto nell'arco di sei anni (ma nel documentario non ne viene dato conto oltre alla didascalia due anni dopo)  raccontando della storia d'amore tra Poul uomo danese ultrasessantenne che ha fatto coming out solo dopo la morte della figlia 17enne in un incidente d'auto (che l'ha vista morire carbonizzata) e del quarantenne thailandese Mai che ha conosciuto in un locale. 
Il documentario ci racconta delle vicissitudini burocratiche per ufficializzare la loro unione, l'accesso al registro per le unioni civili prima, la richiesta di permesso permanente di soggiorno dopo, alle quali si alternano alcuni racconti dei due uomini.
La famiglia che Mai ha in Thailandia e che vediamo quando Poul va in visita, una figlia grande, un figlio più piccolo e una sorella (della donna madre dei sui figli nulla sappiamo) e le vicissitudini di Poul la gioventù dell'uomo che pur sapendo da sempre che gli piacevano gli uomini non ha mai fatto sesso con un ragazzo in gioventù e ha deciso invece di farsi una famiglia (etero) e avere dei figli.
Tra immagini del menage familiare, molto sessista, Mai che cucina e Paul che fa il marito aspettando in salone (perchè Mai non lo vuole in cucina), alle interminabili giornate di lavoro (Poul è pescatore di salmoni), tra i racconti di gioventù di Paul e la brama di Mai di portare il figlio più piccolo, maschio, con lui in Danimarca (la figlia pi grande, fidanzata, è già di un altro maschio)  quello che manca completamente nel documentario è la sfera affettiva e sessuale della coppia che la regista non affronta minimamente.
Nemmeno un cenno alla sessualità di Poul che è stato con un uomo quasi da anziano (a 60 anni), non la restituzione pornografica o voyeuristica del suo rapporto con Mai ma il vissuto emotivo  della sessualità (com'è stato fare sesso con un uomo per la prima volta a età così avanzata?) della quale nel documentario non è presente nemmeno come assenza allusiva, ma, più semplicemente, non c'è. La storia d'amore fra questi due uomini è quella di una amicizia platonica di solidarietà e reciproca assistenza che farebbe contento anche Papa Francesco visto che nel film i due uomini vivono una vita casta dove il sesso viene sublimato nella solidarietà proprio come consiglia il catechismo cattolico alle persone omosessuali. Anche i baci che i due si danno sono rigidi e poco spontanei.
Quando l'ho fatto notare alla regista, anche lei presente al Village, lei mi ha risposto, piccata, che non sentiva l'esigenza di entrare nella camera da letto dei due uomini e che la loro storia d'amore non aveva bisogno del sesso.
Durante questa sua risposta il pubblico presente ha applaudito confermando la sessuofobia di noi italiani (e italiane) che separiamo borghesemente  il sesso dall'amore per cui a casa bacini e coccole mentre andiamo a cercare il sesso dalle prostitute o magari dagli escort...

E no cara Iben Haar Andersen la sessualità è parte integrante di ogni storia d'amore che posa definirsi tale e che nel tuo documentario del vissuto sessuale non ci si preoccupi nemmeno di spiegarne l'assenza è un atto di censura figlio di una visione della vita borghese e sessuofoba che inficia completamente il film che, da questo punto di rappresenta una negazione della pienezza della dignità dell'opzione omosessuale che quando assume le forme di una amicizia affettuosa tra adulti con alle spalle un vissuto etero ed entrambi padri di figli nati da quelle relazioni, questa relazione legittima ma non paradigmatica assurge a storia omosessuale tout court.  Perchè il sesso è amore anche non si fanno figli.

Terzo film della serata Ein Wochenende In Deutschland (Germania, 2013) di Jan Soldat, l'unico autore non presente al Village,  che in 25 minuti racconta del fine settimana di una coppia di uomini maturi (molto sopra la sessantina) che praticano del sesso sm abbastanza soft (spanking e l'uso di ortica).
Un sesso esplicito nelle riprese video (il sedere arrossato i corpi nudi dei tre uomini) non incentrato sull'orgasmo o sull'erezione ma su alcune pratiche sadomaso vissute nella loro centralità del piacere per il dolore, ricevuto e inferto, tra confidenze, dialoghi ricordi e risate, in amicizia e con tanto di caffè e torta dopo le sessione di pratiche sm.

Un film che deve tutto alla capacità del  regista Jan Soldat, classe 1984, di relazionarsi con la coppia della quale il regista è amico tramite la videocamera dietro la quale rimane sempre celato e restituire con uno guardo schietto divertito e non morboso la quotidiana assoluta normalità delle pratiche svolte sdoganando così anche la sessualità (n)(d)ella terza età che nella nostra società ipergiovanilista ruba il sesso riconcedendo la legittimità di pratica solo della gioventù. Nella realtà così non è  ce lo dimostrano questi tre signori divertenti e divertiti.

Questa seconda serata della quarta edizione del GenderDocu Film Festival, che ha visto ripristinati i voti del pubblico grazie alla presenza delle brochure assenti nella prima serata, ci ha regalato tre documentari molto diversi tra loro che costituiscono tre esempi squisiti di come il documentario può raccontare delle storie vere restituendo uno sguardo quello dei loro autori e autrici cui in qualche modo fa da specchio quello stimolato e suggestionato dello spettatore, il cui merito dall'assortimento alla qualità va all'intelligenza di Giona Nazzaro che tramite la sua creatura offre una comune pietra di paragone per misurare la comunanza di una stessa lingua parlata pur se delcinata in istanze assai diverse tra loro.

Chi ha avuto la fortuna di assistere alle proiezioni ha potuto godere di un programma di altissima qualità proposto da Nazzaro con una umiltà e e una onestà intellettuale molto poco italiane che fanno pensare a un brano di una canzone di Gaber:  Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Ecco ieri sera Giona ci ha fatto pensare che tutto sommato è ancora una fortuna essere italiani.






venerdì 30 agosto 2013

4 edizione del GenderDocu Film Fest (1)



La creatura di Giona A. Nazzaro (ora che  Filippo Ulivieri ha abbandonato), fortemente voluta da Imma Battaglia (che ci ha messo i soldi) è giunta quest'anno alla sua quarta edizione.

Con una mission sfocata sin dalla prima edizione i film presentati ogni anno dal festival si pongono nei confronti della parola gender e del concetto che la parola inglese indica (il genere sessuale come costruzione socio antropologica) in un rapporto molto vario, per alcuni dei film è poco più di un pretesto per altri invece un valido elemento per contribuire all'analisi della costruzione e decostruzione del genere e dei suoi stereotipi.

I film presentati secondo la scelta insindacabile del suo creatore non sono mai banali anche se talmente eterogenei da non declinare il gender come tema ma come punto di vista, nodo gordiano di altre istanze, cinematografiche politiche e di militanza lgbt come specificato nel sito del festival:
Ancora una volta si afferma con forza lo specifico del festival: non una selezione “contenutista” di argomenti da discutere, ma la scelta di uno sguardo, sempre schiettamente cinematografico, diretto sull’insieme delle relazioni che fanno del nostro corpo il fulcro di tutte le nostre interazioni sociali.

Questa quarta edizione inizia un po' in sordina a cominciare da uno schermo che non si può dire davvero tale visto che è composto da pannelli assemblati insieme, che soprattutto nelle scene più luminose lascia vedere fin troppo bene i bordi di giuntura tra un pannello e l'altro.
Schermo che va benissimo per la videoproiezione di immagini per la musica o per la discoteca, ma che poco ha a che fare con la cultura della visione cinematografica.

Lo diciamo senza polemica  sperando che per la quinta edizione si torni a uno schermo davvero cinematografico (un unico telo o altro materiale tutto di un pezzo...).
Anche se quest'anno a differenza degli anni passati lo staff tecnico è più sollecito e presente sia dal versante degli strumenti (i microfoni per il pubblico che arrivano subito) sia da quello della sicurezza (con gli addetti che zittiscono con cortesia ma determinazione quella parte di pubblico sciagurata che non solo durante i film parla ma, addirittura, gioca con lo smartphone senza nemmeno azzerare il volume dei suoni di gioco...).


Purtroppo e la responsabilità non è certo di Nazzaro e della sua creatura, il Gay Village ha più la vocazione dell'intrattenimento sostenuto dalla verve di Vladimir Luxuria (direttore** artistico), intervenuta dopo la proiezione del secondo film,  che sa sempre rubare la scena ma che tramuta tutto in gioco, traendone occasione per battute anche quando si riflette su dei temi difficili già per un pubblico più selezionato figuriamoci per quello discotecaro del Village.

Ma tant'è.
Bisogna dare atto a Imma Battaglia di essere stata l'unica a credere e a sostenere il progetto di Giona Nazzaro e, come si dice, a caval donato non si guarda in bocca.

Certo constatare quale sia la qualità dell'attenzione che gli avventori e le avventrici del village sono capaci  di dare a un prodotto culturale di notevole spessore come quello del GenderDocu  film Fest è anche un modo per tastare la salute culturale del paese che è a dir poco moribonda.


Durante il primo documentario, di cui  parlo poche righe più giù, ci sono state continue defezioni data la natura cinematografica (racconto per suoni e immagini)  e non televisiva (dialoghi esplicativi) del film che sarà stato sicuramente recepito come noioso se non incompressibile. 

D'altronde il Gay Village è una impresa commerciale e non è di competenza delle imprese  educare gli spettatori ma solo coltivare dei clienti e allora cosa chiedere di più all'impresa Gay Village che ci regala il GenderDocu Film Fest?


Altra mancanza, davvero ingiustificata, perchè facilmente rimediabile,  quella delle brochure con le note sui film che (a detta di Imma) sono state perse dal corriere...

Una fotocopia cartacea non poteva venire stampata?
Non c'è una fotocopiatrice in tutto il Village?
Non si possono fare 50-100 copie? Davvero?!

Poco grave per la mancanza di informazioni sui film alla quale sopperisce Nazzaro, vera machine à festival. che introduce e traduce dal francese e dall'inglese (ma parla correntemente anche il tedesco...) ma gravissimo per il voto del pubblico previsto per ogni film con tanto di assegnazione finale di un premio - sempre più aleatorio e casalingo - che ierisera non si è potuto svolgere visto che nessuno aveva la brochure con le classiche faccine da strappare e consegnare e che nessuno è passato per raccogliere in altro modo le preferenze di voto del pubblico.

D'altronde solo alla conclusione della serata Nazzaro ha ricordato di votare (e come?!) senza ricordarlo a inizio serata, magari informando il pubblico di quello che il festival aveva pensato per rimediare all'assenza delle faccine della brochure.

Insomma populismo italiota anche in questo caso anche se nessuno tra il pubblico sembra essersene non dico risentito ma nemmeno accorto.

E spero che Giona, che mia accusa di massacrare il festival ogni anno, perdoni questa mia puntualizzazione che mi sembra d'obbligo non per polemica ma per onestà intellettuale.

E, finalmente, passiamo ai due documentari presentati in serata.

Il primo film è l'interessante La Bagne (Francia, 2012*) di Maud Martinin in Prima internazionale come tutti (o quasi) i film selezionati quest'anno (film cioè che per la prima volta vengono presentati fuori dal paese di origine).

La regista filma le prove di una coreografia di Bernardo Montet ispirata a Il bagno penale di Genet.
Tra improvvisazioni, movimenti di gruppo e a solo il film più che documentare la ricerca coreografica allestisce questo materiale seguendo lo sguardo personale della regista che indaga più che sulla coreografia del corpo che balla, sul rapporto tra corpo e persona o, come dice ha detto la regista presente al festival) il corpo e lo spirito.

Ne deriva un lavoro interessante dal punto di vista visivo per la capacità di Martinin di riprendere i corpi, avellendoli dal contesto coreografico per reinscriverli in uno spazio astratto anche con un certo gusto per la composizione dell'inquadratura, in uno splendido 4\3 che le permette di riprendere il corpo di ballo in figura intera mantenendo una certa vicinanza della mpd alle persone riprese, i cui corpi vengono restituiti nella loro datità fisica piuttosto che in quella di corpo atletico danzante. Riprese alle quali  Martinin contrappone alcune riprese in bianco e nero e in super8 montate a supporto visivo delle interviste ai danzatori a danzatrici che raccontano della loro esperienza con la coreografia e l'argomento trattato (una colonia penale, un gruppo di persone condannate ai lavori forzati).

Criptico e vagamente estetizzante ma mai davvero noioso (nonostante la defezione di parte del pubblico di cui si è già detto) La Bagne non si sottrae ad alcune ambiguità che delle semplici note esplicative poste in esergo al documentario (parola che al film sta stretta trattandosi più di un film non narrativo che di un film di documentazione) e non dette dalla regista in seguito a un paio di domande del sottoscritto e di Nazzaro, avrebbero chiarito tutti e tutte il vero senso dell'operazione. 

Martinin è la documentarista ufficiale di Bernardo Montet che le ha chiesto per questa sua ultima produzione per il Centre chorégraphique national de Tours un film più personale dove lo sguardo della regista potesse permettersi un registro più creativo.

Ne nasce una sorta di testamento morale tra coreografo Centre chorégraphique national de Tours dove il coreografo non lavora più, mentre Martinin sì, e i danzatori e le danzatrici. 

Un bell'inizio per questa quarta edizione. 


Più tradizionale il documentario Statunitense di Beth Nelsen, Ana Grillo Camp Beaverton (2013) presentato anche questo come prima internazionale mentre è in una più  modesta prima Europea visto che è già passato un mese fa al Rio Gay Film Festival dove ha vinto il premio speciale e al festival di Vancouver lo scorso 21 agosto (fonte pressbook del film).

Il film restituisce l'esperienza delle due registe al Camp Beaverton l'unico americano dedicato esclusivamente alle donne, comprese quelle trans, ospitato da Burning Man, un festival di arte sperimentale che dura per 8 giorni nella città di Black Rock costruita apposta per l'evento nel deserto del Nevada. 

 
Il film riprende le dichiarazioni di alcune partecipanti che riflettono molte diverse posizioni, nel mare immenso delle identità di genere e negli orientamenti sessuali. Trattandosi di un Campo per sole donne, lesbiche ma non solo, biologiche e trans, le intervistate parlano di sessualità, del proprio corpo sessuato distinguendo tra vagina e vulva (gli uomini parlano smepre di vagina vagina vagina ma in realtà si riferiscono alla vulva) mai del tutto avulsa dalla vita sentimentale di coppia o meno.

Così accanto alla vita monogamica di coppie e threesome (anche se una delle intervistate ammette che, non sapendo lei cosa è una coppia, non si vede molto bene nel rapporto a tre, soprattutto a fare la terza persona...), ci sono coppie aperte,  e donne multigender come una splendida ragazza che ha due identità di genere declinate in entrambi gli orientamenti sessuali (quelli binari gay e straight del pensiero americano la bisessualità non esiste) a ognuno e ognuna dei\delle quali piace un tipo di persona diversa.  Al ragazzo gay fare rimming ai berar (arrivoooooo) al ragazzo etero bionde dalle grosse tette, alla donna etero dei giovani biondi e imberbi e alla donna lesbica donne mascoline (Dykes).
Tra incontri a base di strap on e lezioni sulla masturbazione, il documentario è una apologia del lesbismo e della donna e costituisce una sorta di  risarcimento che il festival paga alle donne dopo che l'anno scorso non aveva presentato nemmeno un film lesbico.

Un film intelligente e divertito (lo strap on è un in più che hanno solo le donne visto che non esiste uno strap on con la fica per gli uomini) dove le donne si dimostrano molto più schiette e prive di barriere degli uomini e dove una ricchezza lessicale prolifica quanto fantasiosa diverte (i clit-tail invece dei cock-tail clit=clitoride) e fa pensare, come la differenza tra donne boi, che pur avendo l'aspetto di ragazzi si considerano ancora donne, e le donne boy che invece si considerano ragazzi trans; oppure le persone cis-sexual o cis-gender (abbreviato in cis) che identifica le persone il cui sesso percepito, quello che le identifica, coincide con quello assegnato alla nascita.


Un documentario da vedere per capire che il sesso visto dalle donne è davvero privo di compartimenti stagni e sempre fortemente responsabile (al Beaver Camp si diffonde e sostiene in ogni momento il safe sex. Una delle intervistate spiega come in base alle risposte che riceve dalla donne che incontra decide che tipo di sesso può fare con loro.

Un documentario da studiare e col quale rinnovare il proprio amore per le donne, sempre e ancora.

 
Stasera la seconda serata.


* sul sito del festival è datato 2013 così come riporta l'articolo maschile le invece che quello femminile.




L'omo paranoia dei media italiani.
Sul bacio di protesta delle atlete russe Tatyana Firova e Kseniya Ryzhova. .

Vi ricorderete di questa foto che ha girato sulla rete durante i Mondiali di Atletica a Mosca.


Questo bacio delle atlete russe  Tatyana Firova e Kseniya Ryzhova è stato letto come bacio di protesta contro la legge antigay di Putin.

Un bacio definito coraggioso che, secondo alcuni commentatori e commentatrici della rete, avrebbe prodotto sgomento nelle altre due atlete che hanno assistito a quel bacio strano.

Saremo anche nell'epoca della civiltà delle immagini e eppure ci dimentichiamo sempre che uno scatto fotografico può estrapolare un gesto congelando un dettaglio che, visto nella sua interezza, acquisisce un significato diverso.

Lo possiamo facilmente verificare guardando al video di quel bacio.




Non solo si è trattato di un bacio a stampo ma se lo sono date tutte e quattro le atlete, in segno evidente di affetto amicale e di solidarietà sportiva e sororale.



D'altronde basta pensare al bacio slavo, come quello celebre tra Breznev e il Presidente della Germania dell'Est Erich Honecker immortalato dal fotografo francese  Régis Bossu, nel 1979



 
 
Dopo la caduta del muro di Berlino, nella primavera del 1990, diversi artisti provenienti da 21 paesi hanno decorato una parte del muro lasciata in piedi per memoria storica con 106 dipinti murali di grande formato.
L'artista russo Dimitri Vrubel trasse il suo dipinto murale dalla foto di Bossu intitolandolo  "Il bacio fraterno" accompagnandolo con la scritta "Dio aiutami a sopravvivere a questo amore mortale", che, restaurato nel novembre 2009, è tra le opere più famose del complesso artistico dell'East Side Gallery il tratto più lungo del Muro di Berlino tra quelli ancora conservati, lungo 1,3 chilometri.
(ringrazio il blog Prospettiva Internazionale dal quale ho preso le informazioni)

Io ho una borsa con il dipinto murale di Vrubel.

Una borsa che porto tranquillamente a scuola dove un giorno, durante la ricreazione, mentre io mi accingo ad andare in classe, incrocio sulle scale uno dei miei studenti di 14 anni, che si ferma, guarda la mia borsa divertito e mi dice
non è un bacio gay vero? 
No - gli rispondo - sono il presidente dell'allora URSS Breznev e il Presidente della Germania dell'Est Erich Honecker. E' un bacio di saluto ad un incontro ufficiale. I russi si baciano così.

Quindi se io penso che è un bacio gay
- riprende il mio studente - è un esempio di pregiudizio vero? 
E io  .
E tutto contento il mio studente se ne va.

Quello che mi preoccupa di questa storia non è tanto l'ignoranza della stampa italiana che non ha pensato all'origine culturale di quel bacio, ma al fatto, maschilista e omofobico, che se due donne (come due uomini) si baciano sulle labbra, anche se con un bacio a stampo, quel bacio le qualifica come lesbiche (come gay).

Il bacio è un gesto di affetto che ha mille diversi significati e che dovrebbe essere agito liberamente da chiunque lo voglia dare e da chiunque lo voglia ricevere senza catalogazioni alcune.
Un bacio tra due donne o tra due uomini non qualifica le persone coinvolte nel bacio come omosessuali intanto perchè una o entrambe le persone potrebbero anche essere bisessuali e poi perchè ci si può baciare anche tra amici.

Io al liceo, quindi 30 anni fa, salutavo un mio compagno di classe con un bacio, a stampo, sulle labbra.  
Un bacio (che a me sarebbe piaciuto fosse altro, ma, come al solito, divago) che nessuno pensava minimamente fosse un bacio gay ma un saluto tra due amici intimi.

Invece il bacio delle quattro (e non due) atlete è stato descritto dalla nostra stampa come bacio saffico, bacio lesbo o addirittura bacio gay come fa l'Unità, come se la cosa più importante non fosse che il bacio è tra due donne (dire il bacio tra le atlete è più che sufficiente per dare questa informazione come fanno alcuni quotidiani a dire il vero) ma che quel bacio tra donne è un bacio diverso dagli altri baci, che va qualificato con epiteti (saffico) o aggettivi (lesbico) a differenza dei baci etero che, essendo la maggioranza (la norma, la normalità), non devono essere distinti perchè sono il bacio per antonomasia senza bisogno di aggettivo alcuno.

Un po' come capita, mutatis mutandis, con quel maledetto articolo la davanti ai cognomi di donne (la Parietti, la Boldrini) che sta tornando in auge anche sulla stampa di sinistra (manifesto in testa una volta più attento al sessismo linguistico), non usato per i cognomi di uomini perchè il sesso per antonomasia, quello che non merita di essere specificato, è sempre e solo quello maschile.

Il concetto di orientamento sessuale è importante per descrivere le persone e per permettere a ognuno e ognuna di noi di costruirci una nostra identità sessuale.


Una società libera e aperta dovrebbe accettare però un bacio tra due ragazzi o due ragazze non già come bacio gay  e lesbico ma come bacio e basta.

Perchè l'affetto e la sessualità sono  di tutti e tutte non di questa o di quella categoria.

E che quello che importa e tutto quello che c'è da dire sul bacio delle atlete russe è che due donne si sono baciate, senza chiederci nulla sul loro orientamento sessuale, senza definire quel bacio con un aggettivo che lo colleghi a un orientamento sessuale (che ci si dimentica sempre che sono tre e non due).

Perchè un bacio è lo stesso qualunque sia l'assortimento sessuale delle due persone che se lo danno.

Altrimenti rischiamo di dividere l'umanità in una serie di categorie di persone che sono le uniche autorizzate ad avere certi comportamenti: non solo dunque se due donne si baciano sono sicuramente lesbiche ma, suo reciproco, solo due lesbiche possono baciarsi.

Due donne etero no, perchè se due donne sono etero che si baciano a fare?!?
Allora vuol dire che tanto etero non sono e sono dunque lesbiche (tertium non datur).

La bisessualità quella all'interno della quale secondo Kinsey ci collochiamo tutti e tutte non esiste.

Si parla tanto di minoranza delle persone omosessuali senza renderci conto che l'omosessualità e l'eterosessualità pure sono entrambe una minoranza e che mediamente ci assestiamo tutti nel continuum della bisessualità sul quale in fasi diverse della nostra vita ci spostiamo ora più verso un polo ora verso l'altro.

Il comportamento sessuale riguarda tutte e tutti solo che socialmente siamo più propensi e propense ad accettarlo disinnescandone il portato omosessuale inserendolo in cornici di riferimento narrative che spiega  e giustifica quel comportamento come non omosessuale (fase adolescenziale, coercitività del carcere, occasionalità in particolari condizioni fisiche, vacanza, viaggio, ebrezza, effetto di sostanze chimiche).
Nessuna sostanza chimica puà ingenerare un comportamento che non sia già presnete nella persona anche se represso o rimosso per cui se il comportamento non fa l'orientamento dimostra comunque che essere coinvolti in interrelazione sessuali e\o affettive con persone dello stesso sesso sia una variabile che riguarda molte più  persone di quelle che poi si definiscono esclusivamente gay (o esclusivamente etero).

Ieri sera un ragazzo che ho incontrato al village e che è appena stato buttato fuori di casa dai genitori mi ha detto ho avuto una ragazza per 5 anni e ora sto con un ragazzo da 8 mesi. Ti innamori delle persone e basta.Senza rinnegare il suo passato etero che secondo la retorica gaista viene visto come una fase di passaggio (proprio come nella retorica eterista viene vista di passaggio la fase gay).

Ecco io non voglio vivere in una società dove l'affettività e anche la sessualità sono distribuite entro griglie rigide e impermeabili  che riducono tutto a due dei tre orientamenti sessuali impoverendo il ventaglio emotivo, emozionale e se(n)(s)suale delle persone strappando la possibilità di baciare una persona dello stesso sesso a chi non è gay o lesbica.

Per cui rallegrarsi che quel bacio serva alla causa gay dimostra invece quanto lavoro ancora ci sia da fare se nemmeno le persone lgbt riescono a riconsocere il loro orientamento sessuale come a un comportamento universale umano e invece vivisezionano sesso e sentimenti in una maniera discriminatoria (o sei omo o sei etero) talmente radicata da percepire la propria radicata omofobia che fa vedere in ogni comportamento affettivo un gesto che tradisce la propria vera natura ed egocentrata (ogni bacio tra due persone dello stesso sesso è un bacio come quelli che do io) come omofilia.

Perchè finché davanti a due ragazze  o due ragazzi che si baciano pensiamo che sono omosessuali non c'è poi così tanta differenza tra chi pensa che schifo e chi che bello.

La discriminazione sta già prima nel credere di poter dedurre un orientamento sessuale da un bacio, separando invece di unire, etichettando invece di riconoscere la ricchezza umana degli uomini e delle donne leggendo con malizia discriminatoria un gesto dolce e tenero e universale come il bacio.

Che è un bacio. E basta.

mercoledì 28 agosto 2013

Gay ingenui prodotto da The Jackal. L'apoteosi del maschilismo omofobico


Tra le varie web serie in concorso alla prima edizione del Roma Web Fest ce n'è una che si chiama Gay ingenui prodotta dalla The Jackal srl da un'idea di, diretto e montato da Francesco Ebbasta. I titoli di coda dell'ultimo episodio non accreditano sceneggiatori... anche se sul sito del Roma Web fest viene riportato di Simone Russo (sic) che credo corrisponda a Simone Ruzzo che è invece uno dei due attori protagonisti.

Di cosa parla la web serie?

Di due amici, ufficialmente eterosessuali e fidanzati con donna, che dividono lo stesso appartamento, e commettono delle ingenuità con le quali tradirebbero la loro omosessualità.



Il condizionale è d'obbligo. Che si tratti di fare la doccia insieme, di andare a vedere al cinema Sex and the City,   di regalarsi una rosa comprata, obtorto collo, dal solito ambulante, di sedersi sulle gambe dell'amico perché sul divano non c'è posto, di stringersi al conducente quando si va in due sul motorino, di preferire la reciproca compagnia a quella della fidanzata, ognuna di queste situazioni è accompagnata da un sorriso di estasi dei due amici sul quale parte una musica di commento e una voce off che recita il titolo della web serie: "gay ingenui".

Non si capisce su cosa si basi il meccanismo della serie che si pretende comico\parodico.

Se cioè si vogliano prendere in giro certi luoghi comuni sull'essere gay o invece si voglia ironizzare su quanti nascondono la propria omosessualità tradendola con atteggiamenti fin troppo espliciti.

Il meccanismo comico sembra scaturire più dal fatto che i due amici sono gay al di là di quanto non si rendano davvero conto sfottendo loro e la loro omosessualità.


Con una superficialità degna dei liceali al primo anno di scuole superiori si ride per la semplice pronuncia delle parole gay ingenui che fanno una insinuazione che contraddice l'assunto stesso del maccanismo comico.

Se i due amici sono gay loro malgrado allora sono piuttosto gay inconsapevoli ma non certo ingenui. 

L'ingenuità non scaturisce dall'inconsapevolezza di una relazione affettiva che si ha a propria insaputa ma dalla naiveté che induce i due amici a credere che nessuno si accorga dei loro comportamenti da gay.


Più che due gay ingenui, i due protagonisti sono due etero ingenui.

Sfugge a Francesco Ebbasta il fatto che un gay si nasconde dall'omofobia che può anche arrivare a ucciderlo e che se vuole nascondersi sa farlo benissimo.

L'idea di un gay che si tradisce per quello che fa nasce più dalla paura che i maschi etero hanno di sembrare o scoprirsi gay se si lasciano andare ad atteggiamenti di intimità  affettività con altri uomini.

L'omosessualità repressa non è quasi mai quella di chi sa di essere gay  ed è costretto a nasconderlo per la pressione sociale ma quella di chi non sa se lo è e per omofobia teme di scoprirlo.

Più che gay ingenui il titolo della serie dovrebbe essere quindi più etero repressi o etero omofobi.

Ma si sa, in Italia i gay fanno ancora ridere...


Ciliegina sulla torta, nei titoli di coda dell'ultimo episodio si ringrazia le fidanzate dei due attori protagonisti della disponibilità con cui accettano la loro amicizia speciale attestando che i due attori che interpretano due gay nella vita reale non lo sono.

Sport diffusissimo in Italia dove ogni attore che interpreta un personaggio gay deve specificare subito che lui quella cosa lì non lo è.


Non si ha paura a interpretare assassini stupratori spacciatori o ladri ma un frocio fa sempre paura al punto tale da indurre sempre a smarcarsi.


Invece di presentare dei personaggi gay positivi e trattati con rispetto nei quali gli adolescenti e le adolescenti gay, lesbiche e bisex possono identificarsi con e sentirsi rappresentati\e si continua a parlare di omosessualità per una battuta, per una boutade, che minimizza sul fatto che in Italia una intera categroia di eprosne viene discriminata anche da questa serie che contribuisce a costruire e cementificare l'omonegatività.

Un passo falso per il Roma Web Fest che mette in concorso una serie così miseramente e criminosamente omonegativa rendendosi così corresponsabile di diffondere il pregiudizio antiomosessuale celandolo dietro una battuta, in realtà un insulto continuo, che si pretende innocua.

Gay ingenui offende anche te. Digli di smettere.






lunedì 19 agosto 2013

Dall'intersessualità al terzo sesso: la stampa italiana sempre più discriminatoria, ignorante e volgare. E' ora di farla smettere.

Le persone intersessuate sono quelle che i cui cromosomi sessuali, i genitali e/o i caratteri sessuali secondari non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili. Un individuo intersessuale può presentare caratteristiche anatomo-fisiologiche sia maschili che femminili.

La definizione in campo medico è dibattuta.
Secondo lo psicologo Leonard Sax il termine intersessualità è da usarsi
  ...in quelle situazioni in cui il sesso cromosomico è in contraddizione con il sesso fenotipico o nelle quali il fenotipo sessuale non è classificabile come maschile o femminile.
Il termine intersessualità per la Intersex Society of North America andrebbe cambiato in disordine della differenziazione sessuale (o disordine dello sviluppo sessuale, "disorders of sex development" in inglese, abbreviato in DSD) perchè il termine intersessualità connoterebbe una definizione imprecisa e con una connotazione negativa.

Mentre Oii Intersex Network ritiene che il termine DSD pone troppo l'accento sugli aspetti clinici della questione, che descrivono parzialmente l'esperienza delle persone intersessuate (la parola si usa solo come aggettivo e non come sostantivo).

L'incidenza delle persone intersessuate è più alta di quanto non si immagini e solo l'analisi genetica dirime la questione che non sempre è dirimibile tramite un'analisi anatomica. Finora le persone intersessuate, cioè, in soldoni, dal sesso indeterminato, venivano riconvertite verso uno dei due sessi già alla nascita, con il contributo decisionale dei genitori ma a insindacabile giudizio del medico.

Oggi invece si ha la propensione a lasciar decidere alla persona intersessuata. Per fare così bisogna aspettare che la persona in questione cresca fino a poter esprimere una celta autonoma.

Proprio a questo scopo la Germania ha varato lo scorso maggio una legge che entrrà in vigore il primo novembre che permette ai genitori di prole intersessuata di non determinare alla nascita il sesso ma di lasciarlo indeterminato rimandando la scelta a quando la persona intersessuata avrà voce in capitolo.

Per rendere la legge equa e non discriminatoria  la legge permette alle persone adulte di non determinare il proprio sesso e lasciarlo indeterminato.

Lo spiega molto bene Lo Spiegel (la versione inglese del giornale, purtroppo non leggo il tedesco) :
la modifica legislativa consente ai genitori di scegliere di non determinare il sesso della prole, consentendo in tal modo a coloro che sono nati con le caratteristiche di entrambi i sessi di scegliere se diventare uomini o donne in età avanzata. Con la nuova legge, le singole persone possono anche scegliere di rimanere completamente al di fuori del binarismo di genere.
Un esempio ottimo di spiegazione semplice che non usa termini difficili come intersex ma non per questo rinuncia a spiegare o far capire le cose a chi legge.


Purtroppo chi fa i titoli opta sempre per un frasario d'effetto, machista e scandalistico e il bell'articolo è deturpato da un titolo pessimo:

M, F or Blank: 'Third Gender' Official in Germany from November

M, F o vuoto: 'Terzo Sesso' ufficiale in Germania dal novembre.

Non si tratta di un terzo sesso naturalmente, ma al contrario, come si evince leggendo l'articolo dove il termine terzo sesso non viene mai menzionato, una indeterminatezza del sesso per motivi di intersessualità o di rinuncia al binarismo dei generi.

Se leggiamo il modo in cui questa notizia viene data in Italia viene davvero voglia di evocare il fantasma di Mao...

La cosa più schifosa è che  gli articoli quando non omettono le ragioni prime di questa legge (permettere alle persone intersessuale di determinare il proprio sesso non alla nascita ma in età avanzata)  come fanno l'Ansa e Il Mattino non sono capaci di spiegare che l'indeterminatezza può essere transitoria per permettere alle persone intersessuate di scegliere uno dei due sessi in età avanzata, ma presentano l'intersessualità come terzo sesso, sussumendolo all'ermafroditismo.

I transessuali sono persone con un sesso definito, maschi o femmine, che si sentono però appartenere all'altro sesso e come tali voglio essere riconosciute.
Gli intersessuali sono invece persone che non hanno precise connotazioni fisiche sessuali e sono comunemente definiti “ermafroditi”. (Fonte la Stampa  TG1 TGcom e Rainwes24, Messaggero che evidentemente attingono tutti da una stessa fonte)
Da notare il maschile sessista e ridicolo se si parla di persone sessualmente indeterminate ma fa pendant con il maschile per le persone Transessuali. 
Ma lo stigma per il transessualismo è talmente forte che questi scribacchini e scribacchine dei miei stivali preferiscono scrivere I transessuali al maschile sono persone con un sesso definito invece di un più preciso, rispettoso e corretto Le persone transessuali  eppure hanno usato quelle parole in un'altra combinazione sintattica...

Ermafrodita è una creatura mitologica che presenta contemporaneamente caratteristiche maschili e femminili complete ed è un fenomeno non presnete in natura.

Le persone intersessuate infatti hanno sì caratteristiche di entrambi i sessi ma mai contemporaneamente pienamente sviluppate.
Fosse così sarebbero contemporaneamente maschi E femmine e non si capisce perchè dovrebbero scegliere  uno dei due sessi o rimanere indeterminate.

L'indeterminatezza di genere delle persone intersessuate nasce invece da una discrepanza, per esempio, tra gli organi genitali interni e quelli esterni, o tra il sesso genetico e il fenotipo, lasciando alla singola persona la possibilità di cancellare uno dei due sessi e favorirne l'altro oppure rinunciare al determinismo dualistico dei generi e rimanere in uno status di indeterminatezza.
Ma queste considerazioni sono troppo sottili o complesse per il cervello limitato della nostra classe giornalistica che è più a suo agio col clima della camerata di caserma.

La repubblica, che, ribadisco, è il quotidinao italiano più omofobico, transfobico e intersexfobico del Paese si distingue e mette la parola ermafrodito sin nel titolo, impostando una equazione che è ha senso solo nella testa sciagurata di chi ha scritto tante corbellerie discriminatorie:
 Germania: legalizzato a novembre "terzo sesso", ermafroditi.
Nell'articolo si leggono perle come questa: 

A partire dal prossimo 1 novembre i sessi in Germania non saranno piu' due, ma tre, poiche' con quella data verra' riconosciuta ufficialmente l'esistenza del 'terzo sesso', in altri termini gli ermafroditi.
 Confrontiamolo con quanto scrive Lo Spiegel:

la modifica legislativa consente ai genitori di scegliere di non determinare il sesso della prole, consentendo in tal modo a coloro che sono nati con le caratteristiche di entrambi i sessi di scegliere se diventare uomini o donne in età avanzata. Con la nuova legge, le singole persone possono anche scegliere di rimanere completamente al di fuori del binarismo di genere.
Lo stesso stile, la stessa precisione, la stessa classe. 

E poi ci si meraviglia se da noi le persone si tolgono la vita. Con uno stigma così diffuso, comune, endemico e diffuso  cos'altro si può fare?

Davvero, cosa si può fare per educare queste merde di uomini e donne che scrivono la stessa merda che hanno nel loro cervello di merda?

Sono aperto a ogni suggerimento dal woodoo allo sterminio di massa. Cosa suggerite?

domenica 18 agosto 2013

Il suicidio giovanile e l'omosessualità: note sparse (2)

La volta scorsa abbiamo visto come nonostante la stampa affermi il contrario il trend dei suicidi giovanili, di tutta la popolazione giovanile sono in netto calo  suicidi nella popolazione lgbt.

Abbiamo  anche visto che il maggiore numero di suicidi nella popolazione lgbt è spiegata con l'omofobia che viene vista e descritta solamente nel senso stretto di stigma per le persone lgbt mentre, beninteso, l'omofobia miete vittime anche tra la popolazione straight.

Ci siamo lasciati chiedendoci quali sono i dati numeri sui suicidi della persone lgbt.
 
La letteratura sui suicidi della popolazione lgbt è un vero vaso di Pandora.
Decine e decine di survey, la maggior parte dei uqali non italiani. Quelli italiani pochi e difficilmente accessibili. 

Da questi survey sono stati tratti studi e report.

Uno di questi, che esiste, fortunatamente per voi, anche in italiano, abbastanza significativo e che possiamo prendere come nostro primo punto di riferimento, è la Relazione di ILGA-Europe* per la Commissione degli Affari Sociali, Sanità e Famiglia dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa dal titolo
Il suicidio tra i giovani gay, lesbiche, bisessuali e transgender  pubblicato nel 2007 e che potete leggere, e scaricare,  qui.


Nella relazione si legge che

Quasi tre decenni di ricerca hanno ripetutamente dimostrato che i giovani gay, lesbiche, bisessuali e transgender (“LGBT”) sono significativamente più inclini a tentare il suicidio rispetto ai loro coetanei eterosessuali. (Relazione di ILGA-Europe pag. 3)

Ognuna di queste affermazioni è corredata da un riferimento bibliografico che per il momento tralasciamo. 
Incline a tentare il suicidio non significa che i giovani (sessisticamente) lgbt commettano più suicidi ma che ne sono solamente più propensi.

Non si tratta di persone suicide ma persone con una alta suicidalità.
 
Rendo così, con un pessimo neologismo che non vuole esser tale, la parola suicidality
coniata dalla Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti nel 2004, per includere tra gli effetti collaterali di alcuni antidepressivi la tendenza al suicidio.

Dunque gli studi sui suicidi tra la popolazione lgbt non attestano già  i suicidi commessi  e nemmeno quelli tentati.
Attestano una maggiore predisposizione al suicidio come attesta la Relazione:
Una ricerca condotta a partire dagli anni ’90 utilizzando un’ampia scala rappresentativa di adolescenti  ha  confermato  i  risultati  di  una precedente  ricerca   sul  forte  legame  tra  la condizione  di  “minoranza  sessuale”  e  il  suicidio.( Relazione di ILGA-Europe pag. 3 ).


In realtà nella versione in inglese del rapporto si parla di suicidality dunque, di nuovo,  non già il suicidio ma la tendenza suicida.

Per minoranza sessuale si intende la

posizione  sociale  stigmatizzata,  il  quale  è  denominato  “minority
stress”  (t.l stress  di  minoranza). 

Minoranza sessuale è una cattiva traduzione dell'inglese Minority stress.

Secondo Michael Dentato nel suo articolo The Minority Perspective

Una forte correlazione può essere tracciata tra (a) la teoria dello stress minoritario, che sottolinea i processi di stress (esperienza del pregiudizio, aspettativa di rifiuto, omofobia interiorizzata) e dei processi di miglioramento nell'affrontare questi processi di stress, e (b) una maggiore probabilità di disagio psicologico e problemi di salute fisica tra gli uomini gay e bisessuali e altre popolazioni delle minoranze sessuali. La teoria del minority stress fornisce un quadro utile per spiegare ed esaminare le disparità di salute e il ruolo dell'omofobia come paradigma sociologico che vede le condizioni sociali come causa di stress per i membri di gruppi sociali svantaggiati, che a sua volta può aumentare il rischio per l'HIV, tra gli altri fattori di rischio. (traduzione dall'inglese mia)
Disparità di salute fisica e mentale.

Tra queste rientra anche il suicidio.

Dunque in chiave psichiatrica si nota come le persone omosessuali siano mediamente più malate, fisicamente  e mentalmente.

Più malate in che senso? Con quale tipo di malattie? Quali comportamenti psicotici? 
Ci torneremo.

Come si può capire anche da questa minima punta di un icerberg gigantesco, ma, in ultima analisi, facilmente eludibile, qualunque sia il motivo per cui si cerca di verificare perchè le persone omosessuali siano più o meno mentalmente malate delle persone etero, al di là dei dati che emergono da queste ricerche, che sono smepre inconcludenti perchè contraddittorie e contraddette da studi successivi,  è chiaro che il punto di partenza è pregiudiziale:  se ci si chiede e si va a indagare sei i froci sono più malati è segno inequivocabile di un pregiudizio discriminante.


Non dimentichiamoci che per la psichiatria il suicidio è una malattia mentale:
Numerosi  studi  hanno  provato  il collegamento  tra  il  minority stress  e,  da  una  parte  l’omofobia  internalizzata***,  dall’altra  i  problemi  di  salute  mentale, inclusi pensieri suicidi e i tentativi di suicidio. Relazione di ILGA-Europe pag. 8


Dunque il gatto si morde la coda.
I gay si suicidano di più perchè sono malati e sono malati perchè si suicidano di più....

Nella relazione si legge:

(...) un  sondaggio  del  1999 realizzato  con  3365  studenti  della  scuola  secondaria  superiore  negli  USA  ha  rilevato  che giovani gay, lesbiche e bisessuali fossero 3.4 volte più inclini a testimoniare [sic] un tentativo di suicidio,  mentre  una  rassegna  Norvegese  nel  2001  di  numerosi  studi,  tra  i  meglio documentati secondo gli esperti, ha rilevato che il rischio di tentato suicidio tra i giovani gay, lesbiche  e  bisessuali  fosse  dalle  due  alle  sei  volte  più  elevato  rispetto  che  tra  i  coetanei  eterosessuali.
La  ricerca  sui  giovani  transgender  ha  mostrato  inoltre  una  significativa
incidenza superiore alla media di tentativi di suicidio. Relazione di ILGA-Europe pag. 3
In inglese si legge gay, lesbian, and bisexual youth were 3.4 times more likely to report a suicide attempt. t.l maggiori probabilità (e non incidenza)


C'è insomma uno slittamento semantico dal suicidio come atto compiuto o tentato e fallito verso l'idea di probabilità propensione, desiderio, un'attrazione verso il tentativo di suicidio.

Più avanti  nella stessa relazione si specifica infatti che: 

La  ricerca  empirica  smentisce  in  modo  chiaro  la  correlazione  tra  la  condizione  di  omo-bisessualità  e  i  problemi  di  salute  mentale,  inclusi  pensieri  suicidi  e  tentativi  di  suicidio.
Dall’altro lato, la ricerca internazionale ha evidenziato l’impatto negativo che emarginazione, stigmatizzazione  e  discriminazione  possono  avere  sulla  salute  mentale  e  il  benessere  dei giovani LGBT.  
Relazione di ILGA-Europe pag. 8
Dunque

1) non c'è collegamento tra l'omosessualità in sé e la suicidalità

2) la pressione sociale dell'omofobia, compresa quella interiorizzata (nella relazione si usa il participio internalizzata), fanno aumentare, dicono gli studi, la suicidalità nella popolazione lgbtq.


E' interessante notare due fatti.


1) Il pregiudizio nei confronti del suicidio visto esclusivamente come malattia mentale e mai, in nessun caso, come strumento di autoaffermazione  (cfr. il mio post Il suicidio non è una scelta debole);  il suicidio visto comunque come indizio di vulnerabilità psicologica.

2) afferire la pressione sociale dello stigma omo\transnegativo*** e eterosessista**** esclusivamente alle persone non eterosessuali:

I  problemi  di  salute  mentale  che possono  comparire  tra  i  giovani-adulti  gay  e  lesbiche  tendono  ad  essere  spiegati  in  termini sociali  o  socio-politici  piuttosto  che  psicologici,  così  come  le  situazioni  psicologicamente difficili  derivanti  generalmente  dal  contesto  sociale,  incluse  le  rappresentazioni  sociali negative della sessualità gay e lesbica si traducono in una maggiore vulnerabilità psicologica degli stessi in quanto minoranza sessuale. (i neretti sono miei) Relazione di ILGA-Europe pag. 4


Così da un lato il minority stress non tiene conto di tutte quelle persone che pur non omosessuali possono comunque essere colpite dall'omonegatività, come ho già avuto modo di dire nella prima parte di queste note sparse, dall'altro il minority stress giustifica, perchè spiega, e isola tutti i danni dell'omonegativià incorporandoli nel fatto che la popolazione lgbt, appartenendo a una minoranza sessuale (definizione di per sè omofoba visto che riassume l'orientamento alla sola sfera sessuale escludendo nella definizione quella affettiva) soffre per lo stress derivante da questo stato di minoranza. Una definizione ambigua e deresponsabilizzante per chi discrimina per chi diffonde lo stigma.

Se l'omosessualità è una minoranza non è certo responsabilità della maggioranza.

Mentre lo stigma è una responsabilità sociale collettiva.

Un conto è sentirsi frustrati perchè in quanto vegetariani si vive in un mondo di carnivori che non ti prende in considerazione e un po' ti sfotte, un conto è essere omosessuali e vivere in una società che non ti dà spazio alcuno senza fornirti strumenti di (auto)rappresentazione e di espressione sociale neutri ma sempre e solo negativi come, pure, la relazione, riporta più avanti:
Tre quarti degli intervistati sono convinti che i mass-media esprimano pregiudizi o elementi discriminatori.  Le persone  e le questioni  LGBT sono ritenute da escludersi nella comunicazione  dei  media,  nel  senso  che,  quando  se  ne  parla,  vengono  generalmente rappresentate in maniera negativa o stereotipica.  Relazione di ILGA-Europe pag. 8



Un concetto infelice quello di minority stress che ha una vocazione quasi terzosessista e che si applica esclusivamente alle persosne lgbt mentre ci sono quattordicenni che magari vogliono indossare una maglietta rosa senza essere necessariamente visti come gay, non perchè essere gay sia qualcosa di negativo ma semplicemente perchè gay non lo sono.

Insomma lo stigma per l'omosessualità è trans-orientamento sessuale investendo le persone etero quanto quelle omosessuali e bisex.

Non così per i ricercatori che ne fanno una questione ad hoc.


Lo stress sociale non è dato tanto dalla minoranza quanto dal fatto che quella minoranza non è annoverata nella sfera del lecito, del normale, del possibile, del disponibile, del paritario.

Non è l'unico concetto ambiguo creato dalla scuola di pensiero angloamericana, caratterizzata da una fortissima vocazione terzosessista e idealista che vede l'omosessualità come condizione a sé, determinata geneticamente, incompatibile con l'eterosessualità cui si dà la paternità ideologica del dualismo dei generi, che nega uno statuto a sè della bisessualità considerata come terra di mezzo ambigua e autonegatoria).

Il concetto di metrosexual, la preoccupazione delle ragazze che il ragazzo con cui escono possa essere gay perchè si cura le sopracciglia o magari non ci ha provato alla prima uscita, sono tutti segni di una società divisa e martoriata in mille sottocategorie che impoveriscono il genere umano e donnano che è uno solo, dove la differenza (e non la diversità) di uno, di una,  è ricchezza di tutti e tutte.

Tutti arogementi che meriterebbero un post a parte e che, in qualche modo, ho già avuto modo ripetutamente di affrontare in molti dei mie post precedenti.

Per tornare al topic di questo post possiamo dunque dire che i dati statistici internazionali (lasciando quelli italiani a un post successivo) ci danno informazioni circa non già i suicidi avvenuti ma circa la propensione al suicidio che abbiamo chiamato suicidalità (dall'inglese suicidality).

E diversi studi attestano che  la popolazione lgbt ha una suicidalità fino a tre volte superiore alle persone non lgbt.

Suicidalità legata non alla omosessualità in sè ma alla pressione sociale (omonegatività, eterosessismo) in qualche modo razionalizzate con il concetto di  minority stress, stress da minoranza dove la pressione sociale e lo stigma si trasformano concretamente in malattia fisica e mentale a maggior carico delle persone omosessuali. 

Quali sono i criteri cui sono stati raccolti i dati?

Quale attendibilità hanno i questionari così raccolti?

Quali sono le malattie che colpiscono di più la popolazione lgbt ?

Chi ci assicura che un gay incazzato per essere discriminato, più che depresso, magari dice di avere pensato al suicidio per sollecitare le istituzioni a intervenire contro lo stigma omofobico?


Per rispondere a queste domande dobbiamo entrare nel vivo di questi survey.

E' quel che faremo nel prossimo post.


(continua)






*La ILGA-Europe è la sezione europea della ILGA Associazione internazionale LGBTI che lavora per l'uguaglianza ei diritti umani per le persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali a livello europeo. Una organizzazione internazionale ombrello non governativa che riunisce 408 organizzazioni provenienti da 45 dei 49 paesi Europei.
Le associazioni italiane aderenti all'Ilga-Europe sono parecchie, e precisamente,

Arcigay
Arcigay Catania
Arcigay Frida Byron Ravenna
Arcigay Gioconda Reggio Emilia
Arcigay Il Cassero
Arcigay La Giraffa
Arcigay Piacenza
Arcigay Pisa
Arcigay Roma Gruppo Ora
ArciLesbica
ArciLesbica Bologna
Associazione Genitori di Omosessuali AGEDO
Associazione InformaGay
Associazione Omosessuale Articolo 3 di Palermo
Associazione Radicale Certi Diritti
Centro Risorse LGBT
CUBE - Centro Universitario Bolognese di Etnosemiotica
Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli
Circomassimo - Associazione gay e lesbica
Comitato Provinciale Arcigay di Rimini “Alan Mathison Turing”
Comitato Provinciale Arcigay Bergamo Cives
Comitato Provinciale Arcigay CIG - Milano
Comitato Provinciale Matthew Shepard - Arcigay Modena
Coordinamento Torino Pride GLBT
Di'Gay Project
Famiglie Arcobaleno
Fondazione FUORI
Ireos - Centro Servizi Autogestito Comunita Queer
Lambda
Omphalos Gay and Lesbian Life
Rete Genitori Rainbow

 




**  Si intende per omofobia internalizzata la condizione per la quale una persona LGB ha imparato ad accettare  l’eterosessualità  come  “l’unico  modo  corretto  di  essere”,  causa  di  un  livello  basso  di autostima  e  spesso  nell’odio  di  se  stessa.  Sentir  parlare  e  vedere  rappresentazioni  negative  di omosessualità può portare le persone LGB ad internalizzare queste nozioni negative.

*** l’Omofobia, così come la bi-fobia e la trans-fobia: una paura irrazionale, o disprezzo verso l’omosessualità  e la bisessualità  e verso le persone gay, lesbiche, bisessuali  e transgender.

**** l’Eterosessismo:  la  convinzione,  dichiarata  o  implicita,  che  l’eterosessualità  sia superiore        (teologicamente,        moralmente,        socialmente,        emotivamente) all’omosessualità; ciò trova spesso espressione nell’assunto (conscio o inconscio) che tutte   le   persone   siano   o   dovrebbero   essere   eterosessuali,   o   nell’ignorare (consciamente o inconsciamente) l’esistenza e i bisogni delle persone che non sono eterosessuali.




sabato 17 agosto 2013

Il suicidio giovanile e l'omosessualità: note sparse (1)

Ma insomma questi froci sono più fragili degli etero?

Si suicidano di più?

Oppure chi chiede una legge contro l'omofobia partendo dal suicidio di Roberto fa una operazione di sciacallaggio come accusano i cattolici più destrorsi?

Indagare su questo argomento è difficile non solo per la scarsità di dati ma, prima ancora, per una serie di giudizi impliciti, sul suicidio e sull'omosessualità,  che vengono veicolati nelle parole e che inficiano una ricerca dal profilo davvero scientifico, cioè priva di bias (pregiudizi) e verificabile.

Che il suicidio non sia una tragedia o una disgrazia ma un fenomeno di più ampio spessore e che faccia parte delle possibilità di autodeterminazione di una persona l'ho già cercato di spiegare in un altro post e quindi non ci torno su.

In queste note sparse  cerco di affrontare il suicidio prima come puro dato statistico senza analizzarne, almeno per il momento, il portato sociologico cioè l'effetto sulla società.

Se dicessi il portato psicologico o medico già lascerei intendere che il suicidio di per sé ha una origine psicotica o medica e questo, ribadisco, è solo un modo di vedere il fenomeno riducendone la sua interezza e complessità.

Se la stampa allarmisticamente parla di un aumento dei suicidi in fascia giovanile, e se anche le associazioni omosessuali lgbt affermano che di questi suicidi un terzo o più sembrano toccare la popolazione lgbtqi andiamo innanzitutto a verificare le fonti (mai riportate direttamente, eppure basterebbe un link...) e cerchiamo di sceverare il solito allarmismo, quello sì davvero sciacallo, dei quotidiani, dai fatti numerici, ricordando a tutt* che una statistica di per sé non dice nulla di definitivo bisogna vedere come è stata stilata e, anche, se non soprattutto, come viene interpretata.

I numeri

Partiamo da una prima semplice domanda.

Quanti suicidi ci sono in Italia all'anno? E di questi quanti sono giovanili?

Secondo il sito del progetto Itaca, una onlus che promuove iniziative e progetti di informazione, prevenzione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della Salute Mentale e di sostegno alle loro famiglie, e che quindi affronta il suicidio da questo punto di vista medico e psichiatrico

Si riportano dati statistici degli USA non essendo disponibili dati riferiti all'Italia. 


Affermazione curiosa, perchè invece i dati ci sono e vengono dall'Istat (scusaste se è poco).

Non si capisce comunque come Itaca faccia a operare in Italia se nel suo operato si basa su dati di uno Stato (una unione di stati...) di altro continente...
 
Nel report dell'Istat di un anno fa leggiamo che :
L’Italia è tra i paesi con i livelli più bassi di mortalità per suicidio e un trend negativo, passando dagli 8,0 decessi ogni centomila abitanti nel 1993, ai 5,9 nel 2009.
In questo prospetto la prima fascia d'età arriva fino ai 24 anni. 

Per i maschi di questa fascia d'età si legge che:
Rispetto all’inizio del periodo considerato, (...) si è avuta la diminuzione più significativa, quasi un dimezzamento del numero di suicidi ogni centomila abitanti, (...) (da valori vicino a 4 per centomila nel 1993 a 2,1 nel 2009) seguite dalle femmine ultrasessantacinquenni (da 8,4 a 4,3).

Il numero dei ragazzi suicidi è sceso dai 324 del 1993 ai 150 del 2009.


Consultando i dati diretti, non quelli pubblicati nel report, per l'anno 2010 disponiamo di fasce d'età maggiormente differenziate, fino ai 13 anni, dai 14 ai 17 e  dai 18 ai 24, dalla quali si evince che il numero totale dei giovani suicidi e delle giovani suicide  è ulteriormente sceso a 138 e che i ragazzi uccisisi sono 111.

Il numero di minori suicidi e sucide è per l'anno 2001 sotto quota 20.




Nonostante un trend in netta diminuzione, la stampa nostrana grida all'allarme e afferma il falso dicendo che i suicidi in fascia minorile sono in aumento.

Se facciamo notare l'esiguità dei dati numerici non è per sminuire il portato dei suicidi giovanili, né tanto meno quello del clima omofobico a danno delle persone lgbt i cui effetti possono senz'altro indurre al suicidio.

Lo facciamo  per restituire una prospettiva più equilibrata sull'intero fenomeno del suicidio giovanile che, pur non rappresentando l'ennesima emergenza, come la stampa ci vuol fare pensare per biechi motivi commerciali e per un allarmismo che ci deve tenere inchiodati e inchiodate alle nostre sedie secondo una strategia della paura - come he ha ben spiegato Michael Moore nel suo film Bowling a Columbine -  è comunque un fenomeno da non ignorare.

Le motivazioni
 
L'Istat non si limita a riportare il numero di suicidi differenziandoli per fattori sociali anagrafici  e geografici ma riporta anche le motivazioni.


Le motivazioni riportate sono alquanto generiche.






Queste categorie sono mutuate da quelle delle forze dell'ordine e della magistratura a cui l'Istat si rivolge per i dati sui suicidi*.

Sarebbe interessante vedere in quale di queste categorie vengono annoverati i suicidi delle persone omosessuali, se tra i suicidi d'onore (vengo preso in giro in quanto gay) o quelli per motivi ignoti (un frocio s'è ammazzato vai a capire perchè).

A prescindere dalla categoria, però,  nell'idea di motivazione del suicidio già nasce un primo problema epistemico per la popolazione lgbt:

l'omosessualità, la transessualità  della persona che si suicida è la motivazione del suicidio ? Ne è cioè la causa?

Oppure il suicidio di una persona non eterosessuale viene illuminato da una luce diversa?

Non sono domande da poco anche perchè l'omofobia non colpisce solo le persone omosessuali ma colpisce tutti e tutte visto che dare del gay o della lesbica viene percepito come insulto sicuramente da chi lo dà e forse, in misura variabile, da chi se lo sente dire.

Non tutte le persone cui si dà del frocio sono davvero frocie.

Dire che un ragazzino (quanto odio questo diminutivo) si è ammazzato perchè gli hanno dato del frocio può essere plausibile sia che il ragazzino sia gay sia che non lo sia:

1) il ragazzino è gay e non si sente accettato (perdonate la brutale semplificazione)

2) il ragazzino non è gay ma non sopporta quell'insulto infamante.

In entrambi i casi abbiamo due vittime dell'omofobia, una gay l'altra no.

Non mi si fraintenda.
Non sto affatto dicendo che le persone omosessuali, vivendo in una società omofoba, non hanno dei problemi  e che questi problemi riguardino loro e solamente loro, perchè il ragazzino non gay che non sopporta di sentirsi dare del frocio non avrà mai, per esempio,  il problema di sentirsi deriso perché va in giro mano nella mano col suo ragazzo.

Sto solo dicendo che anche un ragazzino gay è, prima, o dopo, un ragazzino  tout court  i cui motivi che lo inducono al suicidio sono gli stessi dei ragazzini non gay.

Io posso uccidermi perchè sono innamorato di un mio compagno di classe che non mi contraccambia, proprio come potrei uccidermi perchè a non contraccambiarmi è una compagna di classe.

Insistere sul fatto che, siccome l'omosessualità non è accettata, il motivo per cui il compagno non mi contraccambia è dato anche dall'omofobia e quindi non solo non mi contraccambia ma mi sfotte - o, per un mero calcolo statistico, ho meno probabilità che mi dica di sì  perchè l'omosessualità è un orientamento sessuale numericamente minoritario - significa voler fare del ragazzino gay un martire ad ogni costo porgendo il fianco ai cattolici destrorsi che su queste argomentazioni possono facilmente dimostrare il nostro essere di parte.

Una cosa la si può dire con certezza.

Se si ha l'impressione che i suicidi siano aumentati, anche nella popolazione lgbtqi, anche se statisticamente parlando oggi nella gioventù fino a 24 anni, come abbiamo visto, si suicidano circa la metà di quanti non facessero 20 anni fa, è perchè evidentemente oggi si parla dei suicidi delle persone omosessuali molto più di quanto non lo si facesse vent'anni fa.

Detto altrimenti oggi si ha la percezione di un problema che 20 anni fa non veniva nemmeno contemplato.

E più se ne parla più si fa caso ai suicidi più se ne percepisce il numero in aumento.

Un'altra cosa possiamo che possiamo dire è che l'omofobia miete vittime tra tutta la popolazione e che accanto  a Roberto c'è Andrea Spezzacannone che non era gay ma veniva preso in giro tramite questa accusa o illazione. E anche se non era gay anche Andrea si è tolto la vita.


L'Istat non ci aiuta sui dati dei suicidi riguardanti la popolazione lgbt.

Dobbiamo rivolgerci ad altri studi, altre ricerche fatte dalle associazioni lgbt, o magari studi si settore commissionati per la pubblicazione di un libro.

E' quello che cercheremo di vedere nel secondo capitolo di queste note sparse...

(continua)



* i dati accertati dalla Polizia di Stato, dall'Arma dei Carabinieri e dalla Guardia di Finanza in base alle notizie contenute nella scheda individuale di denuncia di suicidio o tentativo di suicidio trasmesso all'atto della comunicazione all'Autorità giudiziaria. (Istat)