mercoledì 18 gennaio 2012

La lotta all'omofobia: quando è pavida non ottiene risultati. A proposito di una intervista al padre di Ivan Scalfarotto presidente dell’Agedo Foggia pubblicata su Stato Quotidiano

Ho il massimo rispetto per tutti quei genitori di figli gay e figlie lesbiche che si costituiscono in associazioni per sostenere la legittimità dell'orientamento sessuale dei loro figli.
Finché ci sono sedicenti psichiatri che affermano la sofferenza dei genitori di omosessuali c'è bisogno di queste dichiarazioni di stima.
C'è bisogno di un pressing fatto dai genitori che cercano di fare un mondo migliore nel quale figli e figlie vengano accolti meglio.

Non vorrei però che il fatto stesso che questi genitori si danno da fare e dunque scelgano un percorso politico (=vita nella città) li faccia automaticamente degli esperti, dei competenti, persone cioè che hanno voce in capitolo e possono parlare a nome di e per conto degli omosessuali. C'è il rischio che si ingenerino strani parallelismi discriminatori.  A causarli sono quasi sempre i media  non i genitori stessi i quali si prestano a interviste (d'altronde sono un mezzo di comunicazione...) che finiscono per vanificare il loro lavoro.
E' un po' come quando si parla di una malattia degenerativa e si intervista una madre che da anni combatte per la sclerosi di sua figlia e che sicuramente, pur non avendo le competenze scientifiche che sono solo del medico specializzato, sicuramente è più informata di chi, come me spettatore (lettore) di quell'argomento ne so di meno perchè per fortuna quella disgrazia a me non è capitata.

Ed ecco l'equivoco che si genera. che dopotutto, il genitore del(la) omosessuale è un po' come il genitore del drogato del figlio terrorista che deve convivere con un grande dolore ma che trova il modo di superare il trauma...

Così nell'intervista a Gabriele Scalfarotto, padre di Ivan (Ivan Scalfarotto, vicepresidente del PD e che sicuramente rispetto tanti gay proletari è un privilegiato) pubblicata da Stato Quotidiano non possono che dispiacermi nel leggere quel che Gabriele dice o, meglio, quel che gli fa dire il giornalista di turno ma che Gabriele, una volta letta l'intervista, non ritratta.


Nonostante quel che si crede oggi, con l'emergenza omofobia gridata ogni volta che un fascista dice che l'omosessualità è una malattia o peggio un modello diseducativo di comportamento, gay e lesbiche nella nostra società vivono meglio di 30 anni fa. Forse dovrei scrivere meno peggio, ma dopo tutto è una questione di ottimismo.  Se oggi c'è una recrudescenza di loschi figuri che sparano a zero contro l'omosessualità rispolverando argomentazioni da medioevo è perchè, non ce lo diciamo mai troppo spesso, a questi fascisti omofobi intolleranti maschilisti e patriarcali manca la terra sotto i piedi, si rendono conto che lo stigma è grandemente ridimensionato e che presto anche l'Italia, pur fanalino di coda, dovrà recepire nei suoi ordinamenti quei diritti finora negati alle persone glbtqi e ampiamente riconosciuti altrove.

Purtroppo in un paese come il nostro con la classe intellettuale più analfabeta d'Europa (per parafrasare Pasolini) la retorica dei discorsi pro omosessualità è rimasta ferma a 40 anni fa e oggi questa retorica rischia di essere deleteria.

Perchè mentre la società, cioè i cittadini e le cittadine omosessuali, sono andati avanti da soli (da sole) e si sono create una stabilità di affetti e di protezione e solidarietà nonostante e contro le discriminazioni dello Stato, raggiungendo oggi il limite di quel che possono fare da soli chiedendo dunque che finalmente lo Stato faccia quel che come singoli non possono fare, gli strumenti cognitivi usati dai media sono ancora fermi al coming out e all'emancipazione dallo stigma quando il problema è quello dello Stato che non fa nulla per cancellare lo stigma ma lo propala  non riconoscendo ancora le famiglie gblbt, omogenitoriali o meno che siano, anche quando queste famiglie esistono e contribuiscono  alla crescita della società in tutti i campi non solo quelli luogocomunisticamente percepiti come precipui dell'omosessualità (arte, moda, spettacolo).


Ci sono dei racconti bellissimi nell'intervista di Gabriele (la sua reazione al coming out del figlio ‘Embè?’. Lui rise, io risi, ci abbracciammo”) ma anche in questa intervista, così come nella campagna di Arcigay, manca la questione fondamentale.

Il punto di vista di questi racconti è però sbagliato.

Si usa un cannocchiale al contrario che ci fa vedere quel che abbiamo vicino e cogliamo a colpo d'occhio, colto nel posto in cui vive, lontano, rimpicciolito e isolato.

Non si parla mai di come gay e lesbiche vivano nella società ma li si avelle sempre dalla società per parlarne in quanto omosessuali come quella fosse l'unica cosa che conta. Si parte per primi da quel quid su cui si basa la differenza, la discriminazione sull'essere omosessuali.

Il gay, la lesbica, il trans,[sic!] il bisesx vive la propria situazione come l’unica possibile. Agisce secondo quello che sembra. E’ la sua normalità.
Senza rendersene conto Gabriele dà ragione a Scilipoti. Questa frase avrebbe lo stesso senso (anche se ne cambierebbe il valore) sostituendone alcuni sostantivi così:
Il ladro, il drogato, il pedofilo, lo stupratore vive la propria situazione come l’unica possibile. Agisce secondo quello che sembra. E’ la sua normalità.
E la captatio benevolentiae che segue rimane soggettiva e debole
Purtroppo, il mondo l’ha abituato a credere che sia ‘diversità’ la sua. Tutto si gioca attorno a questa dicotomia normalità-diversità.
Ora che ci sia ancora omofobia interiorizzata è un dato di fatto su cui tutti dobbiamo lavorare. Ma che ci siano anche tanti omosessuali liberati che non possono godere degli stessi diritti degli etero è oggi l'emergenza politica più urgente da risolvere. Non per quelli e sono ancora molti che guardano alla questione omosessuale (uso apposta un lessico ottocentesco) con gli strumenti concettuali e culturali di 50 anni fa.

Tutti i problemi che investono figli  omosessuali e i loro genitori vengono imputati genericamente al Mondo 

Ma come è fatto questo mondo? Da chi è regolato, governato, amministrato?
Chi è che diffonde lo stigma?

Gabriele dimentica di dire che viviamo in una società dove quotidianamente  la Chiesa, le istituzioni, lo Stato, la televisione dicono di questi figli che sono malati, moralmente disordinati, che le loro unioni non sono degne di essere riconosciute come famiglie, che sono sterili, che non possono e non devono avere figli, che sono degli infelici.
Stato, Chiesa, istituzioni, governo. Non il generico Mondo. Ma un mondo, cioè una società così mal guidata e formata da nona accettare alcuni suoi cittadini e cittadine discriminandoli in nome di principi che sono contrari alla nostra Costituzione, che sono infondati scientificamente e che seguono un sentire comune patriarcale e fascista.

Gabriele ne fa una questione privata di padri (di madri) che si vergognano (perchè? Di cosa? non lo dice. Lo forse per scontato di cosa un genitore deve vergognarsi se il figlio è gay la figlia lesbica?) di figli che si suicidano perchè perdono l'affetto genitoriale.


Se un padre impedisce a una figlia di uscire con un certo ragazzo che al padre non sta bene quella ragazza può rifugiarsi da amici, da altri adulti, dalle istituzioni stesse e sa di avere dalla sua parte sé l'opinione pubblica che la difende e copre di ludibrio il padre intollerante.
Ma se la stessa figlia ha la ragazza e non il ragazzo le cose cambiano.

In questo caso la figlia sa che ha l'opinione pubblica contro di lei che al massimo la tollererà ma che spende anche parole di comprensione per quel padre devastato dalla notizia 
Persino Gabriele invece ha parole di comprensione per la reazione dei genitori alla terribile notizia.


(...) So cosa succede nell’intimo di un genitore posto di fronte ad un figlio che confessa la sua omosessualità, la sua diversità.
(Ecco la competenza del genitore del figlio malato che emerge)
“Ora chi mi guarderà più in faccia?” La seconda: “Dove ho sbagliato?” (...) Ci si interroga sulle influenze sulla famiglia, sulle scelte dei giochi e dei giocattoli, su cosa si poteva fare e non si è fatto o su quanto non si sarebbe dovuto fare ma si è fatto.
Purtroppo le spiegazioni che Gabriele dà sulla causa di queste reazioni sono del tutto insufficienti.
(...) l’omosessualità è recepita come una diversità. Diverso è ciò che non si conosce, l’altro da me. Come la morte. La si teme non in quanto conclusione di un cammino, ma in quanto ignoto, salto verso il buio.
Non è solo questione di diversità.

E' questione di stigma. Che è ben diverso. Uno stigma tanto più disperatamente alimentato quando parti sempre maggiori della società iniziano a non alimentarlo più, s circoscriverlo, a criticarlo.

Ma per Gabriele non è un problema pubblico, quindi delle istituzioni, dello Stato, degli aggregatori sociali, della religione, della morale. E' sempre e solo una questione personale, privata.
Chi reagisce in questo modo non ha per nulla briga di capire cosa pensano, sentono e credono i propri figli. Anzi, ai ragazzi presentano il conto. Che è un conto doppio. Isolati dai coetanei, agli occhi dei quali sono mosche bianche. Incolpati dai genitori. Ma cosa crediamo che gli adolescenti che si buttano giù da un balcone e che infarciscono le pagine di cronaca, sono matti suicidi che compiono il gesto estremo per un brutto voto? Un quattro in matematica si recupera studiando. Ma l’amore dei genitori e la stima dei compagni no.

Trovo insopportabile questo punto di vista, perchè incolpa i singoli genitori, vittimizza i figli (e le figlie) senza però individuare le vere cause, o, meglio, i diffusori del pregiudizi, i suoi amplificatori, Chiesa e Stato. Due agenzie sociali ben più forti e grandi della famiglia che (dis)educano tutte le famiglie.

Io posso scegliere le persone di cui circondarmi ma non posso scegliere le istituzioni in cui vivo se non a costo di cambiare Nazione. Non è solo una questione di genitori e compagni. E' una questione di chi e come educa questi genitori e questi compagni. Di chi li educa alla discriminazione e al pregiudizio

Dobbiamo aggiornare e rifondare profondamente il nostro armamentario retorico il modo di vedere il mondo e  presentare le esigenze delle persone omosessuali e trans alla maggioranza. Che non sono più una questione privata di autoaccettazione di sé o della propria prole ma una rivoluzione culturale che disinneschi la discriminazione omofobica in tutte quelle sedi dove questa può danneggiare dei cittadini discriminandoli in base al proprio orientamento sessuale o alla propria identità di genere.

Con tutto il rispetto per le intenzioni e la buona volontà di Gabriele e dei tanti genitori come lui abbiamo bisogno di parole nuove. Di pensieri nuovi. Di una nuova strategia politica e comunicativa perchè quella messa in atto è figlia dello stesso pregiudizio che si vuole combattere.

2 commenti:

Gabriele Scalfarotto ha detto...

Hai le tue buone ragioni, Alessandro Paesano.

È valida l’accusa che mi fai di non aver smentito la intervista su Stato Quotidiano, solo però dove il giornale ha parlato “del” trans. Non l’ho rettificato, e me ne dolgo: non me ne ero accorto. Quella è una notazione che a me non sfugge mai.

E se rilascio una intervista, contribuisco quanto meno a diffondere l’idea che gli omosessuali sono normali.
Siamo nel paese dove ancora si distinguono gli omosessuali dai “normali”. Questa distinzione io la combatto con tutte le mie forze, in tutte le sedi.

Mi dai del pavido e dell’incompetente che non capisce di omosessualità.

Pavido. E perché mai? Pavido vuole dire pauroso. E di che? Se non facessi quel che faccio, chi mai saprebbe che ho un figlio gay? Sono 30 anni che Ivan non vive a Foggia. Sarebbe bastato farmi gli affari miei, frequentare il Lions Club o la Bocciofila San Michele. Io mi spendo, Alessandro, ci metto la faccia. E non per Ivan, non solo per lui. Mi espongo. Sono presente. Da quando ho costituito AGEDO Foggia, di gay, di lesbiche si parla, e se ne parla in termini non negativi. Qualcosa sto contribuendo a correggerla.

Incompetente. In parte è vero. In parte. So di omosessualità meno di tanti omosessuali. Forse di tutti gli omosessuali. Ma certamente più di tanti papà di omosessuali. Non parliamo degli altri papà. E non dico sciocchezze: sarò incompleto se vuoi, ma quel che dico è vero. Magari c’è dell’altro, ma quello c’è.

Tu però, di genitori di omosessuali non mi sembra che ne capisca molto di più. Ho la impressione che tu non realizzi chiaramente che i genitori di omosessuali hanno anch’essi i loro problemi. Sì, differenti da quelli dei figli, ma non per questo meno gravi. Non puoi oggettivizzare la gravità di un problema. È un fatto soggettivo. Un problema è grave nella misura in cui lo vivi male.

Bada: non è che io giustifichi i genitori che, davanti al coming out, si domandano “proprio a me?”; non è che io li giustifichi quando si chiedono “dove ho sbagliato?”.- Io semplicemente racconto quello che succede nella realtà. Questo è quanto accade e io, quando e come posso, aiuto quei genitori a venirne fuori. Ad amare i loro figli per quel che sono, ad assecondarli nella ricerca della felicità.

Io non faccio ARCIGAY. Io faccio AGEDO. Mi occupo di genitori. E del rapporto tra i glbt e i loro genitori. Se costoro vivono male la condizione del figlio o della figlia, il gay, la lesbica, LA trans, avranno ugualmente gli stessi problemi che paventi tu e, in più, avranno la solitudine nella famiglia di origine. Una sofferenza in più. Dolorosa. Cruenta. Tu, Alessandro, forse non ha visto ai pride, quando passiamo sul carro dei genitori, ragazzi e ragazze piangere a singhiozzi e gridare “perché il mio papà non è con voi? perché?”.-


Tu hai ragione: come gay sono poco battagliero. Ma io non sono gay. Sono il papà orgoglioso di un gay. Ma sono il papà. E sono il papà adottato da tanti giovani, gay e lesbiche, che mi cercano. E mi trovano. E mi confidano i loro problemi di famiglia. Si sfogano. Mi consultano. Li ascolto. Li consiglio. Tratto con i loro papà, con le loro mamme. Quello è il mio posto.


E tuttavia, sono uno di quelli che riconoscono l’alto valore simbolico e di penetrazione delle figure coreografiche “eccessive” che compaiono ai pride. Fanno bene: costituiscono terapia d’urto. E questa mia concezione la diffondo e la difendo in tutte le sedi.


Non mi volevi offendere, Alessandro, e non mi hai offeso: hai soltanto confuso i ruoli. Hai preso una svista. AGEDO è la mia associazione, non ARCIGAY.

Cerco di farvi star bene, almeno nelle vostre famiglie di origine. È poco, lo so, ma questo è quanto posso, e credo di saper fare. Questo è quanto voglio fare. Senza spavalderia, ma senza paura.

Incontriamoci.

Con grande affetto e con la massima considerazione.

Gabriele Scalfarotto

Alessandro Paesano ha detto...

Ciao Gabriele.

Intanto grazie per avermi risposto. Lo apprezzo molto.

Mi dispiace che leggendo il mio post tu abbia potuto pensare che abbia dato del pavido a Te.

Come saprai meglio di me, critico l'idea e non la persona.

Ho dato del pavida alla lotta politica che tu intraprendi (almeno da come l'ho capita io leggendo la tua intervista) perchè mi sembra che nel denunciare lo stigma omofobico non individui le cause nello Stato e nella Chiesa, o nel maschilismo ma solo nel "Mondo" che per me è un po' generico e che non vuoi pestare i peidi a nessuno... (ed ecco spiegato l'uso di quell'aggettivo).

Così come non ho detto che sei "incompetente", non mi permetterei mai!
Cercavo di esprimere un'altra idea.
Cioè che il fatto che sei padre di un figlio gay non ti dà automaticamente la competenza politica per fare una efficace lotta contro l'omofobia. E la "competenza" non la dà nemmeno l'omosessualità di per sé.
Anzi è proprio questo il punto.
Non basta essere "parte in causa" per fare una buona lotta politica.

Per esempio.
A me sta stretta l'espressione genitore di omosessuali.
Tu sei genitore.
Punto.
L'omosessualità non è di per sé qualcosa che ti qualifica come genitore con un "problema speciale" (come puà essere che ne so, la droga o una malattia).
Io credo che la testimonianza che tu dovresti portare come genitore non è quella di genitore di figlio gay ma genitore di figlio DISCRIMINATO.

Finché dirai genitore di omosessuale un po', mi sembra, lo stigma continui a portartelo addosso e a riversarlo anche su tuo figlio.

Dal mio punto di vista di figlio (non omosessuale, figlio e basta) che mio padre e mia madre non mi accettino per il mio orientamento sessuale non mi rende diverso da quei figli i cui genitori non accettano l'orientamento politico, la professione che hanno scelto, il tipo di vita che conducono, etc etc ...

Ci sono mille altri motivi per cui un genitore fa piangere il figlio e non è con lui... e l'orientamento sessuale non è un motivo diverso dagli altri motivi per cui un genitore "abbandona" il figlio o lo caccia di casa, o lo vessa, o lo mena o arriva ad ucciderlo.
C'è la stessa radice di intolleranza, di patriarcato, di paternalismo, di mancanza di rispetto...

Finché continuiamo a vedere gli attriti tra padre e figlio per l'orientamento sessuale come una cosa che fa la differenza non credo che l'omosessualità sia davvero accettata come una opzione di pari dignità.

Mi fa piacere che non pensi che ti volessi offendere perchè infatti non è così. Non fa parte del mio stile offendere la persona, tanto meno con lo scopo di criticarne le idee. Tra l'altro denuncerebbe che ho poche argomentazioni critiche...

Infine non credo di avere confuso i ruoli. Ho anche scritto nel titolo del mio post che sei di Agedo. Se ho menzionato Arcigay è perchè facevo un paragone tra il punto di vista espresso nella tua intervista (che secondo me è fermo ai problemi di accettazione e non menziona la discriminazione, i diritti mancati) e la campagna di arcigay nazionale che fa lo stesso.
Non vi confondevo, vi paragonavo...

Come ho cercato di spiegare nel mio post credo che bisogna superare l'idea che si debba lavorare sul problema dell'accettazione e cominicare a denunciare le discriminazioni.

Non dire a tutti voglio bene a mio figlio "lo stesso" (cioè malgrado la sua omosessualità).

Ma dire: siccome voglio bene a mio figlio denuncio le discriminazioni che subisce in base al suo orientamento sessuale.

Almeno questa è la mia opinione.

Riparliamone, magari di persona.

Grazie ancora per l'attenzione che mi hai dedicato